La percezione diffusa presso economisti, studiosi e addetti ai lavori è che una buona parte del declino industriale ed economico in cui sembra versare l’azienda Italia sia da imputarsi alle ridotte dimensioni medie delle nostre imprese. La presenza di grandi soggetti, infatti, non raggiunge il 5% e comprende i soliti nomi noti (Fiat, Enel, Eni, Finmeccanica, e poi un soggetto ciascuno per tlc, banche, treni, aerei e poste, ecc), peraltro tutti impegnati a rincorrere concorrenti sempre più ‘colossali’ e integrati di noi; mentre la concentrazione di piccoli e micro-soggetti (ovvero società che possiedono fino a 5 dipendenti) resta di gran lunga più sviluppata rispetto ai restanti paesi dell’Unione Europea. Non stiamo certo raccontando novità, piuttosto il fatto nuovo è che oggi più nessuno se la sente di difendere quella che per lungo tempo è stata considerata una costante virtuosa e originale del nostro tessuto imprenditoriale: la piccola dimensione, o – come si dice oggi molto indicativamente – il ‘nanismo’ del capitalismo italiano.
Proprio l’imprenditorialità diffusa e frazionata ha da sempre costituito la spina dorsale del nostro sistema economico. Siamo stati la palestra naturale di concetti molto efficaci e originali che sono stati studiati nelle aule di management di tutto il mondo: da noi si veniva ad osservare il sistema virtuoso delle ‘organizzazioni a network’, la simbiosi vincente tra un know how territoriale iperfocalizzato e una scuola di imprenditori creativi e capaci. Da noi prendeva forza il motto ‘small is beautiful’ e, più di recente, quando alcune delle nostre aziende si sono internazionalizzate, si è parlato con orgoglio di ‘multinazionale tascabile’.
Oggi, l’interesse verso le virtù economiche del nostro modello industriale è un po’ scemato. Quando osserviamo tavole rotonde di economisti e personalità istituzionali sulla BBC o sugli altri network globali, prima di tutto scopriamo che gli italiani non sono quasi mai invitati, poi notiamo che l’Italia non è nemmeno citata come sistema economico o potenza industriale, al contrario di Francia, Germania, paesi scandinavi, persino la Spagna e i paesi emergenti dell’Europa dell’Est. Certo, non versiamo in buonissime condizioni e le stime previsionali sull’andamento del nostro conto economico e dello stato patrimoniale per i prossimi due anni non sono rosee. Ma anche se questo riguarda almeno tutta l’Europa continentale (Germania in testa), non è sufficiente a spiegare questa sorta di emarginazione. Né è sufficiente far ricadere il tutto su una responsabilità, peraltro indubbia, della sfera politica e istituzionale.
Questo stato di relativa emarginazione delle nostre imprese deve farci riflettere attorno a una constatazione sostanziale: oggi più nessuno parteggia per le piccole dimensioni e più nessuno è disponibile a tifare per un modello industriale che abbia al suo centro le virtù della piccola o piccolissima impresa. Tutte le circostanze che favorivano il ‘piccolo’ sono messe in discussione. Con questa constatazione dobbiamo fare i conti per ragionare sul futuro. Si tratta di capire e analizzare in profondità alcune premesse organizzative e strutturali, ma anche alcune certezze ‘mentali’ e culturali, che sostengono un modello che tutto il mondo ci invidiava e che ora ci rimprovera.
Deterritorializzare l’azienda
Prima di tutto, il concetto di ‘territorio’. Le nostre piccole imprese sono soggetti tradizionalmente operanti in un contesto territoriale prevalentemente locale, che da quel contesto traggono risorse e relazioni, competenze e network. In questo territorio fisico chiaramente definito, le voci sempre più insistenti sulla globalizzazione dell’economia sono sempre vissute come una partita che si gioca su altri scacchieri e che non ci può riguardare direttamente. Non è un caso che ancora oggi le reazioni di fronte alla concorrenza straniera in casa nostra richiamino – talvolta a ragione, troppe volte a sproposito – il ricorso a misure istituzionali: si richiede allo stato di intervenire, perché solo lo Stato ha le dimensioni e la caratura per controbattere un fenomeno così ‘sovrastante’ e così ‘straniero’ nelle logiche e nelle regole.
Questa visione fortemente territoriale del business va modificata e in fretta. Non tanto nelle sue accezioni difensive (ovvero: imparare a non tirare a campare affidandosi sempre alle barriere doganali e ai marchi DOP), quanto in quelle attive. Il che significa – per le nostre aziende più volitive – guardare in modo sempre più focalizzato ai mercati esteri, conoscerne e apprendere punti di forza e debolezza, conoscere il mercato internazionale dei capitali, studiare in modo sistematico le modalità di entrata, che non sono fisse ma si rinnovano costantemente: soprattutto, abituarsi a considerare la nozione di mercato e di mercato potenziale in termini extra-nazionali, perché questo è già abbondantemente avvenuto nei paesi europei mentre da noi ancora stenta ad emergere. Volete qualche esempio? In questi giorni l’Istud di Stresa in collaborazione con la Wharton University ha organizzato un evento internazionale che raduna circa 200 manager provenienti da 40 paesi differenti. Obiettivo è quello di studiare l’innovazione e il design attraverso l’esempio di alcuni centri di eccellenza nostrani, come ItalDesign, Alessi, FontanArte, Slowfood, etc. L’incontro fa parte di un network itinerante di eventi che permettono ai manager di misurarsi in diretta e on site con ciò che sta accadendo nei mercati di tutto il mondo: India, Cina, Paesi baltici, America latina e ovviamente anche l’Italia. Purtroppo, nessun manager italiano è presente in questo network, mentre ci sono francesi, inglesi, indiani, spagnoli, coreani, ecc.
‘Deterritorializzare’ l’azienda e le sue prospettive non significa solo guardare con più costanza al mercato in termini più ampi. Questo significa anche orientare l’opinione pubblica verso i casi di successo, numerosissimi, che il nostro paese ha prodotto e sta producendo in termini di internazionalizzazione. Questa è sicuramente la prima e più importante strada da percorrere e da allargare, per superare un ‘nanismo’ che è sempre prima culturale e poi aziendale.
Un nuovo tipo di creatività
La seconda certezza culturale che ci avvolge e ci frena è quella della creatività unita al ‘solismo’ dei nostri imprenditori. Un vecchio adagio recita: le cose si chiariscono stando insieme ma si scoprono stando da soli. È un adagio che piace concettualmente soprattutto a intellettuali e filosofi e che è stato fatto proprio dai nostri imprenditori in secoli di pratica.
Ne deriva la comune credenza secondo cui, in un’impresa dominata da una forte personalità imprenditoriale e creativa, la struttura organizzativa e il conseguente livello di delega non possano essere granché distribuiti. Di qui ad accettare la piccola dimensione come taglia ‘fisiologica’ del sistema, il passo è brevissimo. Siamo innovativi, siamo eccentrici, quindi non chiedeteci di essere anche grandi. La ‘grossezza’ implica il coordinamento e la delega, il chiarimento reciproco e la tendenza a depersonalizzare, la logica del gruppo e il rispetto delle norme e delle procedure. Tutto questo appare lontano anni luce dall’idea di creatività ispirata dell’eroico capitano d’impresa, che tiene insieme un piccolo crocchio di fedelissimi magnetizzati dal carisma e dall’autorità più che da contratti standard e benefit negoziati.
Quindi, di nuovo, viva la piccola azienda forgiata sull’effigie del fondatore che ‘vede dove gli altri non vedono o prima che gli altri vedano’. Ma anche quest’idea “mostra la corda”, perché nel frattempo il concetto di creatività si è enormemente allargato. Se infatti guardiamo ai più fenomenali esempi di innovazione degli ultimi anni – un prodotto come l’i-Pod Apple, una compagnia come Ryanair, i casi di H&M e Zara – scopriamo che la creatività che paga maggiormente oggi non è più quella tradizionalmente associata al prodotto fisico elaborato di nascosto o alle sue componenti poco visibili agli spioni della concorrenza (uno stabilimento efficiente, un dipartimento ricerca ingegnoso, un marketing geniale). Si tratta invece di un nuovo tipo di creatività, che rinnova per intero – con un concetto o un’idea – i modelli esistenti di impresa, la competenza disponibile sul mercato, i settori competitivi rigidamente ripartiti.
Ebbene, al centro di questo nuovo modo di innovare, ci sono sempre due ingredienti: un network estesissimo di relazioni internazionali su cui poter contare e una sofisticata tecnologia di supporto per poter coordinare queste relazioni. H&M o Ryanair non sono prodotti innovativi (un vestito economico e ben confezionato, un viaggio aereo economico); l’innovazione sta semmai nella creatività con cui una fittissima rete di operatori è stata aggregata e viene tenuta assieme. Una creatività difficilissima da copiare e che si nutre di un costante dialogo con i migliori fornitori globali di prodotti, di servizi e di tecnologie informatiche.
Di fronte a questi meccanismi, i nostri distretti territoriali forniscono una rete di relazioni un po’ invecchiata e (usiamo il termine in modo obiettivo, non lo si legga in termini negativi) un po’ provinciale, dove la relazione a tu per tu prevale sempre su quella mediata dalle tecnologie; col risultato che anche qui arranchiamo. I due aspetti – network e tecnologia abilitante – camminano insieme, perché un sistema di relazioni internazionali solide non può non contare sull’uso pressoché routinario delle infrastrutture informatiche.
Il buon governo d’impresa
Infine, il problema del ‘buon governo’ d’impresa. Un’altra tradizione fortemente radicata e intrinseca delle nostre imprese risiede nella coincidenza tra famiglia e azienda, nel presidio totalizzante di un unico proprietario, e nelle conseguenze che questa omologia genera. Più che di governo, per le nostre aziende, si può parlare piuttosto di potestà. Ora, è chiaro che l’azienda gestita da un ‘pater familias’ che insieme investe, decide, coordina, riscuote e distribuisce ricchezza è molto differente da una società per azioni anglosassone il cui capitale è in mano a una miriade di attori che spesso non si conoscono tra di loro, addirittura sanno poco o si interessano poco di quello che l’azienda concretamente sa fare.
Fino ad oggi, modello familiare e modelli societari hanno convissuto bene e in perfetto equilibrio, almeno dal punto di vista del giudizio dell’opinione pubblica: nel senso che entrambe hanno mostrato una quota simmetrica di punti di forza (per esempio, la garanzia di continuità nel primo caso, le possibilità di sviluppo nel secondo) e di criticità evidenti (la dipendenza esagerata da un’unica fonte di comando nel primo caso, la costante focalizzazione sul breve termine nel secondo).
Il presente però non sembra altrettanto ecumenico, anzi. Ad esempio, un concetto che la società civile e lo stesso mondo economico internazionale stanno imponendo a gran forza alle aziende (anche a seguito dei clamorosi scandali finanziari di qualche anno fa) è quello di trasparenza. Trasparenza significa tante cose, ma per le aziende ne significa prima di tutto una, ovvero maggiore e migliore comunicazione al contesto del proprio operato e dei rischi che si stanno correndo.
Non si tratta di un concetto vago o di un’ispirazione astratta, si badi bene; gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: la principale e molto concreta occupazione di tutte le imprese quotate al NYSE o a Wall Street è oggi la cosiddetta ‘compliance’ al Sarbanes-Oxley Act, che nulla è se non un gigantesco tentativo di vincolare tutte le principali aziende del mondo a una maggiore trasparenza verso investitori, azionisti, istituzioni, lavoratori. Il Codice Preda in Italia e il secondo accordo internazionale sui requisiti patrimoniali delle banche (meglio noto come ‘Basle Committee’) operano nella stessa direzione, invitando banche e imprese a mappare e comunicare il rischio operativo e strategico.
Questo concetto di ‘governo’ d’impresa, che nelle premesse aspira a costruire un capitalismo sempre più aperto e una relazione sempre più osmotica tra azienda e società, è lontano anni luce dalla nostro familismo nazional-popolare, e infatti le innovazioni normative sopra riportate sono state raccolte da tutti gli interessati come ‘farraginosità burocratica’, ‘tentativo di sostituire i controllori ai controllati’, ‘attentato alle piccole e medie imprese’. È probabile che anche su questo versante il nostro atteggiamento debba essere rivisto.
Conclusioni
Se volessimo sintetizzare i concetti qui discussi ricorrendo a un’unica metafora, il recente caso-Fazio ci offre uno spunto impagabile. Vista dall’alto, la strategia è quella di sempre: una piccola-media società nostrana (BPI), guidata da un brillante condottiero, vince la sfida impossibile contro i giganti grazie a un po’ di finanza creativa e a un piccolo ma solido network locale (i ben noti ‘furbetti del quartierino’): il territorio è italiano, il network è quello degli amici fidati, la creatività è quella ‘fatta a mano, artigianalmente’. E la trasparenza del tutto … è quella che è.
Attenzione: in altre epoche, tutto questo avrebbe funzionato, anzi, avrebbe avuto un grande successo e avrebbe portato legittima ricchezza a tutti i convitati e sviluppo al sistema. Oggi invece dobbiamo decidere se vogliamo aggrapparci a questi concetti stantii o se dobbiamo rimboccarci le maniche e cambiare spartito.
* Alberto Melgrati è Responsabile product development di Istud