MILANO – È un po’ come quando per alcune procedure giudiziarie è stato invertito l’onere della prova. Oggi, a differenza che in passato, nelle pubbliche amministrazioni non si deve più spiegare perché è possibile utilizzare software open source invece di quello proprietario, ma è esattamente il contrario.
È la novità più evidente della Circolare n. 63/2013 dell’Agenzia per l’Italia Digitale. “Un provvedimento – spiega Carlo Piana, avvocato e referente della Free Software Foundation Europe nei tavoli di lavoro che hanno portato alla definizione del documento – che integra l’articolo 68, comma 1 ter del Codice Amministrazione Digitale (Cad), così come è stato modificato dal Decreto Crescita 2.0 del Governo Monti, convertito in legge alla fine del 2012”. La formulazione iniziale dell’articolo 68 del Cad del 2005 metteva sullo stesso livello il software commerciale e quello open source. “Nella nuova versione – sottolinea il legale esperto in software libero – il comma 1 ter impone alle Pa di preferire il software libero o il riuso a quello proprietario, consentendo il ricorso a quest’ultimo solo laddove i primi due non risultino utilizzabili”. La normativa, ovviamente, non si applica ai progetti varati prima dell’entrata in vigore nel nuovo provvedimento e basati sui precedenti criteri di comparazione fra software proprietario e libero.
La Circolare propone un percorso metodologico e una serie di esempi per aiutare le Pa nella valutazione comparativa di sistemi operativi, middleware, suite di produttività e collaborazione, e altri tipi di applicativi. Se il concetto di software libero è ormai noto ai più, forse è bene chiarire il significato di software da “riuso”, che la circolare mette sullo stesso piano di quello open source. “Si tratta – chiarisce l’avvocato Piana – di software sviluppato a spese e su specifiche di una Pa e che, in virtù di clausole inserite ad hoc nel contratto con chi sviluppa, dev’essere fornito con il codice sorgente ed essere reso riutilizzabile da altre Pa senza spese aggiuntive”.
Quali sono i principali vantaggi del ricorso al software libero e al riuso da parte delle pubbliche amministrazioni? “Al di là della convenienza economica legata al non dover pagare i costi di licenza – risponde Piana – i software a sorgenti aperti, in quanto consentono a più persone di collaborare su sviluppo, manutenzione e assistenza, promuovono una conoscenza diffusa e quindi lo sviluppo di risorse sempre più qualificate sul territorio. La situazione cambia se si deve dipendere da un numero limitato di persone certificate dai vendor proprietari. Una dimostrazione della capacità dell’open source di favorire una conoscenza sempre più diffusa è dimostrata dal fatto che, mentre nel mondo dei software proprietari i grandi esperti si trovano solo in pochi grandi laboratori, nelle comunità open source sono presenti moltissime persone in grado di affrontare problematiche tecnologiche estremamente sofisticate”.
Una conseguenza di tutto questo è la qualità delle soluzioni open. Anche sotto il profilo della sicurezza, un aspetto menzionato nella Circolare. “Ormai da tempo – interviene Piana – è stato sfatato il mito che gli sviluppatori di software libero siano dilettanteschi e inaffidabili. Certo bisogna scegliere le persone e le organizzazioni giuste. Per quanto riguarda la sicurezza dei software, soprattutto ai fini della tutela della privacy, il fatto che i codici siano aperti fa sì che siano anche ispezionabili e valutabili. Grazie all’esistenza di un’ampia community di sviluppatori, le vulnerabilità dei software liberi sono risolte più velocemente rispetto a quelle presenti nei software proprietari, con conseguente diminuzione dei rischi di exploit”.
Nella parte finale della Circolare è contenuto un nutrito elenco di cataloghi di software open source. “Non ci sono più scuse – taglia corto il referente della Free Software Foundation – per non utilizzare software libero nella pubblica amministrazione. E questa scelta non è più tollerata, ma è quella giusta”.