Qualche anno fa, quando il software aveva iniziato a diventare la leva principale delle aziende per fare business, e per le persone il motore con cui eseguire buona parte delle proprie azioni quotidiane, era nato il detto “Il software si mangerà il mondo”. “A me questo slogan non è mai piaciuto molto – dice Gianni Anguilletti, vice presidente di Red Hat per la regione mediterranea, in un’intervista a ZeroUno a margine dell’evento Red Hat Summit Connect a Milano – ma ora lo uso per una parodia: ‘L’open source si sta mangiando il mondo’”.
Le innovazioni scaturite dal sorgente aperto
La ragione è sotto gli occhi di tutti, in primis di chi come Anguilletti è un protagonista del mondo IT (dal 2006 al 2017 è stato country manager di Red Hat Italia, dopo molte esperienze nelle vendite di colossi fra cui Ptc e Sap) e in secondo luogo anche degli osservatori e analisti: “Tutte le aziende del mondo, comprese quelle delle aree che fanno parte della regione di cui mi occupo (Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Israele, Grecia e Cipro) cercano di sfruttare al meglio tutte le risorse computazionali che le nuove tecnologie mettono a disposizione nel contesto del cloud ibrido, del multi cloud e dell’edge. E lo fanno in quanto sono alla ricerca spasmodica di quelle scalabilità, rapidità e sicurezza che queste piattaforme offrono. E da che cosa scaturisce lo sviluppo dell’hybrid cloud, del multi cloud e dell’edge? Dall’open source. I container sono nati da Linux. Il sistema operativo del cloud è Linux. Le nostre tecnologie cloud Red Hat OpenStack sono fatte tutte con componenti open source. Nel settore dell’elaborazione dei Big Data la parte del leone la fa la tecnologia a sorgente aperto Hadoop”.
Una ricetta non per tutto ma apprezzata da tutti
A questo punto ci sorge spontanea una domanda. Ma davvero tutta l’IT potrebbe essere costituita da software open source? Che fine farebbero le piattaforme proprietarie, molte delle quali – basti vedere le suite Microsoft Office o gli Erp Sap – continuano a essere preferite rispetto ad analoghe proposte open source?
“Stiamo andando verso un mondo IT ibrido”, risponde il vice presidente dell’area mediterranea di Red Hat. “Anche le grandi software house che prosperano con modelli di sviluppo proprietari si stanno aprendo sempre di più nei confronti di modelli di sviluppo open source per ottenere il meglio dei due mondi [sorgente chiuso e aperto, ndr]. Lo dimostrano i casi di Microsoft, Google e Amazon. L’open source non è una ricetta per tutti i tipi di piatti. Esprime il massimo della sua potenzialità dove ci sono grandi numeri. Nelle tecnologie di nicchia o per casi d’uso molto circoscritti, le soluzioni proprietarie possono offrire grandi vantaggi. Un sistema operativo, invece, lo usano tutti. Un database quasi tutti. Una soluzione di gestione delle risorse umane, per esempio, invece no. Eppure per svilupparne una completa e performante occorrono investimenti mirati. Lo stesso dicasi per un gestionale internazionale che deve ottemperare a tutti i regimi fiscali esistenti nel mondo”. È ovvio che le software house che sviluppano soluzioni di questo tipo, le quali non possono basarsi sulla valorizzazione dei contributi di decine di migliaia di sviluppatori di una community open source, ma devono investire in grandi team interni multidisciplinari e ben integrati, tutelino la loro proprietà intellettuale.
Cloud native: tutti lo vogliono ma devono ancora prenderlo
Al contrario le tecnologie che permettono il funzionamento delle infrastrutture hybrid e multi cloud, la modernizzazione di applicazioni che girano su sistemi legacy o l’integrazione dei data center con il mondo cloud, e lo sviluppo di applicazioni e architetture cloud native, sono ormai diventate oggetti ricercati da milioni di aziende e organizzazioni in tutto il mondo.
E chi ha una nuova buona idea per sfruttare maggiormente le opportunità offerte dal paradigma cloud e dalla crescente digitalizzazione – o riesce a perfezionare una già esistente – trova subito un grande uditorio disponibile a prenderlo in considerazione e a remunerare in modo differente dall’acquisto di licenze, come avviene nel mondo closed source.
La comunità open source è sempre ricca di sviluppatori o team che identificano tecnologie che ancora non esistono, le sviluppano e poi, o creano startup, o cercano vendor interessati ad acquisirle e a continuare a svilupparle, pur mantenendole open source. È per questo motivo che, come afferma Giorgio Galli, Senior Manager Solution Architecture Presales Team Italia, Red Hat, “la stragrande maggioranza delle tecnologie utilizzate nell’infrastruttura internet sono open source. Quello che fa Red Hat è supportarle per poter permettere ai suoi clienti di ottenere quelle flessibilità, scalabilità e velocità che ricercano. Dove per flessibilità intendiamo la possibilità di modernizzare le applicazioni tradizionali per poterle utilizzare ovunque – dal data center all’hybrid o multi cloud all’edge – o creare nuove applicazioni cloud native. Per scalabilità non avere limiti di implementazione sia dal punto di vista applicativo che infrastrutturale. Per velocità, creare e mettere in produzione rapidamente applicazioni innovative”.
Le esperienze di Red Hat e dei clienti che si sono alternati sul palco hanno disegnato un panorama, compreso quello italiano, dove, come dice Rodolfo Falcone, Country Manager Italia di Red Hat, “ormai non si può più parlare di evoluzione ma di rivoluzione del mondo IT. Lo scorso anno, a causa della pandemia, abbiamo dovuto lavorare come pensavamo che forse sarebbe successo fra dieci anni. Per fortuna, però, adesso abbiamo potuto riaprire gli uffici. Ma, in buona parte delle aziende, gli uffici di oggi non sono più quelli del passato: sono diventati più meeting point, dove si arriva dopo essere stati in call a casa con alcuni clienti, ci si confronta e poi magari si torna nella propria abitazione a finire il lavoro”. Il numero uno di Red Hat in Italia non ha risparmiato una nota (per ora) dolente: “Le ricerche del Politecnico di Milano ci dicono che le applicazioni cloud native sono ancora solo circa il 10% del totale. Questo significa che c’è ancora un 90% su cui lavorare”. “Non è il lift and shift di applicazioni tradizionali sul cloud che crea valore”, interviene Galli. “Lo creano le applicazioni cloud native, che utilizzano Kubernetes, o che sono serverless e event-driven”. Obiettivo: rendere il cloud native la nuova normalità.