Caso Utente

UniCredit: il valore del modello open source

Secondo Massimo Messina, Responsabile Global Ict della banca, la differenza fra tecnologie open source e tradizionali è ormai legata soprattutto al business model dei fornitori. Quelle Open Source sono meno “opache”, sono molto dinamiche e stimolano la creazione di nuove competenze aiutando a farsi più domande e a… “imparare ad imparare”.

Pubblicato il 12 Feb 2015

Tra le aziende dalle quali i clienti si aspettano assoluta efficienza, continuità operativa, innovazione e competitività figurano senz’altro le banche, soprattutto quelle di maggiori dimensioni. Un esempio di realtà di questo tipo è UniCredit, banca commerciale operativa in 17 paesi, con oltre 148 mila dipendenti e più di 8.500 filiali.

A parlare con noi dell’esperienza open source di questa storica banca è Massimo Messina, Responsabile Global Ict UniCredit, che all’inizio dell’intervista vuole però fare una precisazione: “Se mi chiede se l’open source per noi rappresenta un aspetto rilevante nell’It di oggi, la risposta è sì; se mi domanda se abbiamo un approccio integralista a favore dell’open source, per cui un domani tutte le soluzioni saranno di questo tipo, la risposta è no. Questi strumenti, come del resto anche in caso di soluzioni proprietarie, vanno introdotti in modo opportuno e dopo corrette valutazioni caso per caso. Detto questo, va riconosciuto che oggi non vi sono più fattori inibitori all’utilizzo del software open source”.

Massimo Messina, Responsabile Global Ict, UniCredit

Il contesto Ict della banca milanese

Ma facciamo un passo indietro. Qual è il contesto Ict del Gruppo bancario in cui l’open source si trova a giocare un ruolo a dir poco strategico? “Un Gruppo rilevante come il nostro – spiega Messina – non può non avere un impegno nell’Ict altrettanto importante. Nell’It, UniCredit investe ogni anno due miliardi di euro. La gestione di risorse di queste dimensioni richiede una struttura organizzativa che deve rispettare alcuni criteri fondamentali. Uno è la ricerca dei modi più efficaci per permettere al nostro business di esprimersi al meglio, anche con il ricorso a tecnologie innovative e a strutture di fornitura non tradizionali. Un secondo riguarda l’impegno a soddisfare le esigenze legate alle implementazioni It più tradizionali, a supporto di attività abbastanza simili a quelle che caratterizzano tutte le banche”. Come è costituita l’organizzazione che deve far fronte a queste esigenze? “Nel 2012 – continua Messina – abbiamo costituito UBIS, UniCredit Business Integrated Solutions, un’entità che si occupa di vari aspetti della macchina operativa del Gruppo: real estate management, sicurezza, procurement, back office, helpdesk e, ovviamente, anche l’It. UBIS esplica le sue attività anche negli altri paesi in cui abbiamo deciso di utilizzare soluzioni in un’ottica globalizzata e standardizzata. Io non faccio parte di Ubis, ma di una struttura centrale Ict all’interno della Holding UniCredit guidata dal Group Cio Massimo Milanta. Il nostro compito è occuparci di governance Ict per tutto il Gruppo, definendo regole che riguardano, fra l’altro, anche gli aspetti architetturali”.

Le differenze fra open source e software commerciale

Dove troviamo l’open source all’interno dell’ecosistema Ict di UniCredit? Cosa ha portato a preferire questi strumenti ad analoghe soluzioni tradizionali? Quali criticità in termini di skill e organizzativi pone l’adozione dell’open source? “Prima di tutto – premette Messina – sarebbe molto interessante ragionare su cos’è l’open source oggi. Negli ultimi anni si sono verificati fenomeni che hanno fatto la differenza fra come l’open source era, o era vissuto, in passato e adesso. Il debutto delle distribuzioni commerciali di Linux, per esempio, ha modificato l’approccio delle aziende verso il primo open source. Il progetto Jakarta [sviluppato alla fine degli anni Novanta nell’ambito della Apache Software Foundation, ndr] ha permesso di capire che realizzare piattaforme web con Tomcat [un web e application server open source, ndr] non fosse un’idea irrealizzabile. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una curva di maturazione dell’open source che ha portato l’It aziendale a utilizzarlo anche in ambienti di produzione e in impianti molto complessi; un esempio di questa maturazione è rappresentato da RedHat JBoss Enterprise che ha innovato molto il modo di sviluppare e distribuire le applicazioni in ambito enterprise.

Nel frattempo, nel mondo open source sono sorti esempi di imprenditorialità di grandissimo rispetto. Una dimostrazione è l’investimento compiuto da Intel per entrare in Cloudera [fornitore di software e servizi per l’information management e i big data basato sulla tecnologia open source Apache Hadoop; nello scorso maggio Intel ha speso 740 milioni di dollari per acquisire il 18% delle quote dell’azienda, ndr]”.

Dove UniCredit utilizza maggiormente le soluzioni a sorgente aperto? “La risposta sarebbe molto lunga. Oggi noi abbiamo un radar abbastanza ampio dal quale teniamo sotto osservazione dai sistemi operativi, ai linguaggi, fino alle applicazioni. Nei data center e nelle server farm utilizziamo Linux [anche nella distribuzione Red Hat Enterprise Linux, ndr], ma anche Ibm Aix, un po’ anche di Sun Solaris e un po’ meno Windows”. A questo punto Messina puntualizza: “Oggi più che discutere se utilizzare software open source o tradizionale, si dovrebbe ragionare in termini di tipologie di soluzioni e scegliere quella più adatta a una specifica situazione, indifferentemente dal modo in cui è stata sviluppata. Ormai la differenza tra software tradizionale e open source sta solo nel business model adottato dai fornitori, che nel primo caso è più basato sulla vendita di licenze e nel secondo più su quella dei servizi. Quanto al tema degli skill – sottolinea il responsabile Global Ict di UniCredit –  il software open source sta ridefinendo i paradigmi anche in quell’ambito, non ultimo il modo in cui si impara l’uso degli strumenti. L’open source ci porta a ragionare in termini di metaconoscenza, ovvero a come imparare ad imparare. Il fatto che sia possibile guardare dentro questi software, mentre quelli tradizionali sono più ‘opachi’, stimola chi ne ha voglia e la necessità a voler acquisire nuove informazioni e a imparare come cercarle nel contesto della cosiddetta società dell’informazione. Chi sviluppa questa capacità operando su uno strumento, in seguito sarà in grado di sfruttarla anche nei confronti di altre soluzioni”.

Il ragionamento del Responsabile Global Ict UniCredit avvalora un’opinione diffusa secondo cui confrontarsi con il mondo open source consente ai team It aziendali non solo di accedere a un nuovo patrimonio di tecnologie, ma anche di importare al proprio interno un nuovo modo di lavorare collaborativo. “Le dirò di più – aggiunge Messina – ci stiamo rendendo conto che il modo in cui si dovrebbero sviluppare applicazioni all’interno di un’azienda dovrebbe essere sempre più simile a quello delle community. Prendendo questo a riferimento abbiamo elaborato dei concetti di inner sourcing [termine coniato nel 2000 da Tim O’Reilly per definire l’utilizzo di tecnologie open source nelle attività di sviluppo all’interno delle corporation ndr] estremamente interessanti. Un nuovo modello di DevOps, del resto, non può fare a meno degli approcci sviluppati nel mondo open source”.

L’innovazione è il primo vantaggio

Quanto ai vantaggi del software open source rispetto a quello tradizionale, il responsabile Global Ict di UniCredit è d’accordo con chi afferma che quello dell’economicità non è il più importante. “Open source – sottolinea – non vuol dire free. In alcuni casi si investe limitatamente per acquisire la tecnologia, ma poi si deve spendere per i servizi di consulenza. A dire il vero questo succede  anche con le soluzioni commerciali: le acquistiamo magari a condizioni vantaggiose, ma in seguito ci troviamo a sostenere costi ulteriori per l’attività consulenziale, l’assistenza e gli upgrade. Un sicuro vantaggio economico dell’open source consiste semmai nello spostare il modello di spesa dagli investimenti in conto capitale (Capex) al pagamento diluito nel tempo servizi (Opex). Ma quello che è veramente uno dei maggiori vantaggi del mondo open source – continua Messina – è la capacità di innovazione. Spesso i vendor commerciali non possono essere ‘disruptive’, perché devono mantenere la compatibilità con un grande parco installato, mentre quelli open source riescono anche a sfruttare in modo estremamente efficace ed efficiente l’intelligenza collettiva e le competenze delle comunità che sostengono i prodotti. Sotto questo profilo il mondo open source è molto più dinamico. Non a caso alcune delle maggiori innovazioni degli ultimi anni – per esempio nell’ambito dei big data – sono nate e si stanno sviluppando nel mondo open source”.

Come giudica il responsabile Global It il ruolo dei vendor di distribuzioni commerciali nel mondo open source? “Se vogliamo adottare una soluzione per studio o per uso solo interno – risponde – possiamo anche scaricare una versione gratuita e poi implementarla e gestirla da soli o in collaborazione con la community. Se invece la tecnologia open è destinata a fare girare infrastrutture e applicazioni business critical, allora abbiamo bisogno di un fornitore in grado di offrirci assistenza 24×7, di gestire gli incidenti in tempi molto rapidi e offrire un supporto locale. Ai miei colleghi di altre aziende consiglio – conclude Messina – di non avere remore ad analizzare seriamente il mondo open source, ma di ricordarsi che questo non è tutto uguale. L’approccio giusto dovrebbe passare attraverso una maturazione culturale nell’uso di questi strumenti che, come tutti, vanno trattati con cautela e applicati dove ha più senso. Devono essere inoltre effettuate attente valutazioni e scouting che tengano in considerazione tutti gli aspetti di una corretta introduzione della soluzione e non solamente quelli tecnici”.


Alcune tecnologie sotto il radar della banca

Sono moltissimi gli strumenti open source utilizzati in un gruppo bancario di grandi dimensioni nazionali e internazionali quale UniCredit, il loro utilizzo spazia dai sistemi operativi, ai linguaggi di sviluppo alle applicazioni. Nei data center e nelle server farm, accanto a Unix quali Ibm Aix e Sun Solaris, Linux occupa un posto importante.
Già da diversi anni FinecoBank (Banca diretta multicanale del gruppo UniCredit e una delle maggiori Reti di Promotori Finanziari) è assurta agli onori della cronaca per aver scelto di puntare sull’open source, tra cui Red Hat Enterprise Linux e JBoss Enterprise middleware di RedHat per effettuare un downsizing dei sistemi e rendere più efficienti i servizi web. Sempre in tema di sistemi operativi open source enterprise, parole di apprezzamento si registrano anche nei confronti per la distribuzione di Linux CentOS, che recentemente è entrato a far parte della “famiglia” Red Hat. Ancora a marchio RedHat è la piattaforma PaaS scelta da UniCredit per accelerare l’introduzione di un nuovo modello di DevOps nella propria “fabbrica dello sviluppo”. Si tratta di OpenShift, che il gruppo bancario ha deciso di utilizzare nella versione Online, cioè public cloud.
Per la creazione, distribuzione e gestione di applicazioni in ambienti distribuiti, nel radar di UniCredit c’è anche la tecnologia Docker. Tra gli strumenti ritenuti più innovativi nati nel mondo del sorgente aperto si segnala la soluzione di schedulazione Apache Mesos. Tra gli interessi degli sviluppatori della banca rientra il linguaggio Java e tutte le sue evoluzioni.
Quanto alle esigenze di gestione e analisi dei big data, un deciso apprezzamento va verso le tecnologie open source quali Hadoop, in particolare nella distribuzione commerciale proposta da Cloudera.

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