La situazione geopolitica globale è in continua evoluzione come lo sono le norme nazionali su cui essa impatta. Ciò accade anche nell’ambito tecnologico, per esempio sul CHIPS Act. Gli Stati Uniti lo stanno affinando in modo che possa rassicurarli sulla propria produzione interna, nonostante il braccio di forza con la Cina non dia cenni di cessare.
Sempre più chip Made in USA
Qualche settimana fa, è stato il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti a rimettere mano a questo regolamento, rendendone più chiaro l’intento strategico. In particolare, lo ha arricchito con specifiche regole finalizzate a limitare gli investimenti che i beneficiari possono effettuare per espandere la produzione di semiconduttori in Paesi “nemici”.
Già nel suo complesso, la norma mira ad assicurare vantaggi tecnologici e di sicurezza nazionale agli USA e ai suoi alleati. Con questa proposta di integrazione, si mirerebbe a garantirsi una posizione predominante più certa, anche nei decenni a venire.
Fin da quando è stata approvata (agosto 2022), questa legge chiedeva di stanziare oltre 52 miliardi di dollari per far ricerca, sviluppo e produzione “made in USA” di semiconduttori. Nello specifico, ben 39 di questi miliardi erano stati da subito destinati a supportare solo e soltanto la produzione.
Con la recente “precisazione” si fissano nuovi obblighi dal piglio “protezionistico”. Per prima cosa si vietano per 10 anni tutte le transazioni superiori a 100.000 dollari che espandono del 5% o più le strutture tecnologiche più all’avanguardia e già esistenti in Cina, Russia, Iran e Corea del Nord. Rincarando la dose, il governo ha pensato anche di vietare ai beneficiari di aggiungere nuove linee di produzione o espandere la produzione di un impianto preesistente oltre il 10%.
Altri nuovi limiti riguardano poi la ricerca: quella congiunta non potrà essere supportata dai fondi del CHIPS Act, nemmeno per la realizzazione di brevetti, la condivisione di segreti commerciali o altre informazioni, se con un’”entità avversaria”.
Si tratta di un’opera di affinamento massiccia, che preme l’acceleratore del settore USA dei semiconduttori e che non passa inosservata fuori confine. Questo anche se non è nulla di definitivo: l’ultima parola verrà pronunciata entro l’anno, ora devono passare almeno 60 giorni per ricevere potenziali commenti pubblici.
La Corea del Sud “rimpatria” i suoi chip
Sono numerosi e di diverso genere i soggetti su cui impatta ogni nuova specifica del governo USA in tal merito. Intel, per esempio, dovrebbe ricevere 7,5 miliardi di dollari per le sue fabbriche in Arizona. Altri 6 dovrebbero arrivare a TSMC, per le sue attività sul territorio statunitense. E poi c’è Samsung. In USA, l’azienda coreana è impegnata con un impianto da 25 miliardi di dollari a Taylor, in Texas, 8 più di quelli previsti, causa inflazione. Grazie al CHIPS Act, ne riceverà probabilmente circa 3,7.
La stessa Corea del Sud, dopo la nuova serie di regole, potrebbe poi anche intervenire per limitare le attività che la “sua” azienda sta portando avanti nella sfera cinese. Porrebbe delle restrizioni, ma non così ferree e definitive come invece temeva di dover fare. Sarebbe stato alquanto problematico da gestire, soprattutto alla luce della sua visione a lungo termine nel settore chip. Seoul, infatti, già da qualche settimana si sta attivando per “ri-nazionalizzare” almeno parzialmente la produzione di semiconduttori. Ha infatti di recente annunciato un piano di investimenti da 230 miliardi di dollari, accompagnato da iniziative per rafforzare la sua leadership nei settori display, batterie, biofarmaceutica, veicoli elettrici, auto intelligenti e robot. Nel suo complesso, la strategia “cova” più miliardi di quelli investiti in suolo americano. È lampante che, a questo punto, ciò stia diventando una vera e propria priorità nazionale.