Alla ricerca di una “human way”

Pubblicato il 17 Nov 2015

2012StefanoUbertiFoppa

"Più la scienza progredisce, meglio comprende perché non può venire a capo dei problemi"
Claude Lèvi Strauss

Potremmo fermarci qui, con questo messaggio del noto antropologo, psicologo e filosofo francese e lasciarvi pensare, elucubrare, ognuno di voi a sviluppare un proprio pensiero rispetto al ruolo che oggi la scienza, declinata anche nelle tecnologie Ict, può assolvere nella sua capacità di risposta alla complessità circostante.
Ma proviamo ad articolare meglio.

È in questa frase che, a nostro avviso, sta tutta l’impotenza di poter dare una risposta esaustiva, attraverso la tecnologia e soprattutto attraverso un approccio primariamente tecnicistico, alla complessità del mondo in cui viviamo e, peggio ancora, al velleitario tentativo di provare a prevedere, immaginare, condizionare il futuro.
Mai come oggi le tecnologie Ict, con il cloud, con la potenza elaborativa delle nuove architetture iperconvergenti e in cluster, con semiconduttori sempre più ingegnerizzati, potenti in-memory data base per la real time analysis, intelligent networking software defined, velocità di accesso ad applicazioni e servizi always on, software di intelligenza artificiale che evolvono in sistemi di cognitive computing e smart machines che dialogano e apprendono, mai come oggi, si diceva, la tecnologia rischia di farci perdere “la misura delle cose”.
Viviamo ormai da parecchi anni in una sorta di autosuggestione collettiva che unita alla fisiologica velleità e spirito di avventura tipici dell’essere umano, tendono più o meno consapevolmente a traguardare l’obiettivo, in realtà impossibile, di un controllo dell’imprevedibile e della complessità. Un’illusione di massa, basata sulla convinzione che una digitalizzazione diffusa possa naturalmente portare ad un miglioramento ed evoluzione dei modelli relazionali, collaborativi, economici e sociali del mondo in cui viviamo. Dimenticando che il digitale è solo lo strumento, Internet è la rete, la tecnologia, ma l’alveo psicologico, morale ed etico nel quale queste tecnologie possono produrre i loro effetti moltiplicatori, è rappresentato invariabilmente dalla natura umana e dai sistemi sociali la cui evoluzione non può essere determinata solo dalla digital disruption. Il cambiamento non può avvenire semplicemente attraverso lo sviluppo scientifico, ma, da sempre, si determina soprattutto grazie all’evoluzione di un insieme complesso di fattori culturali, morali, economici e politici, individuali e collettivi, di cui la tecnologia è senz’altro parte costituente ma il cui driver primario è sempre, in ultima analisi, la persona.
In più stiamo dimenticando un aspetto quanto mai centrale nell’evoluzione della società attuale: ancora oggi, anzi soprattutto oggi, in pieno sviluppo tecnico-scientifico, alla base dei meccanismi di studio, ricerca, sviluppo e diffusione della tecnologia anche digitale, resta saldo, inattaccabile, il tradizionale modello di consumo. Quasi tutte le tecnologie ruotano attorno non tanto allo sviluppo di una Human way quanto al perno dei modelli economici di quasi la totalità dei paesi del mondo: il profitto. Digitalizzazione consumer a livello individuale, scelte di refresh tecnologico delle infrastrutture Ict delle imprese, tutto è orientato alla produzione di servizi, alla generazione di prodotti il cui fine ultimo è il consumo. Ottimizzare, efficientare, risparmiare, sono attività che non riescono ancora ad inserirsi in un modello di sviluppo sociale alternativo, o quantomeno in affiancamento, alla tradizionale accumulazione di capitale, che resta saldamente il driver primario. Non sono applicate a criteri di riduzione delle diseguaglianze e di miglioramento di qualità della vita, anche se non si possono oggettivamente ignorare le molte le applicazioni realizzate in questa direzione.
Con l’attuale evoluzione dell’Ict, stiamo prefigurando un mondo totalmente connesso, dove la produzione di dati, alimentata da oggetti intelligenti e con logiche di autoapprendimento, ci consentirà di immaginare il futuro ed erogare servizi migliori, prodotti migliori, un mondo migliore. Sicuri? Se prima non avremo compiuto un salto di civiltà, di crescita della nostra identità di esseri umani come soggetto collettivo in un unico pianeta da preservare, questa corsa digitale potrà anche portarci a cocenti delusioni quando non a pericolose devianze. Pensiamo al rischio di controllo e condizionamento che può portare l’analisi su big data di nomi, profili comportamentali, abitudini, idee, relazioni da parte di alcuni soggetti, aziende o governi che siano.
È semplicistico cercare il “nirvana digitale” non preoccupandosi di quei soggetti, spesso gli stessi che determinano i criteri di sviluppo economico e politico, che stanno pianificando le nostre relazioni, le nostre necessità e le risposte conseguenti, il nostro futuro digitale, modellando potenzialmente le nostre vite.
Alla luce di questo scenario, una funzione di “reminder”, di “grillo parlante”, la possiamo a questo punto anche attribuire al cybercrime.
Se non fossero forme di criminalità diffusa, organizzata e anch’esse piegate alla logica economica e di controllo politico, potremmo considerarli “i nuovi luddisti”, quelli che “smontano le chimere della macchina digitale”. Così non è. Tuttavia una lezione ce la danno: se la società va digitalizzandosi, se il “software is eating the world”, connotando lo sviluppo dei nostri modelli sociali e di business delle imprese, intervenire per modificare, rubare, alterare il codice, significa riportare brutalmente (e illegalmente) il nostro sogno digitale alla realtà, alla nostra fragilità, alla nostra aumentata vulnerabilità.
Ecco qualche dato, che tra l’altro riportiamo anche in un servizio all’interno di questo numero, in chiusura di editoriale: uno studio 2015 della Darpa (Defense Advanced Research Project Agency), l’Agenzia governativa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ha di recente pubblicamente dimostrato di poter attaccare da un semplice laptop 21 differenti modelli di auto di 10 costruttori agendo sul software a bordo, manomettendo freni, sistema di guida, chiusura di auto, motore, climatizzatore. Entro il 2020 circoleranno oltre 250 milioni di veicoli connessi e la domanda di sofware di connessione a bordo è in forte aumento (+37% nel 2015 – dati McKinsey). Già oggi abbiamo una media di 50 Unità di Controllo Elettroniche a bordo, con una potenza simile a quella di 20 pc, 100 milioni di linee di codice ed un’elaborazione di circa 25 Giga di dati all’ora. In un’auto.
Se pensiamo a questo passo di digitalizzazione applicato ad ogni ambito, case, ospedali, supermercati, industrie, persone (wearables) stiamo immaginando solo una piccola parte del futuro digitale che ci attende. Ma attenzione: dobbiamo provare ad esserne artefici e non solo oggetti spostabili, modificabili, condizionabili. Anche demitizzando le prospettive, nella consapevolezza che “più la scienza progredisce, meglio comprende perché non può venire a capo dei problemi”.

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