Big Data Management per le aziende significa poter gestire l’imprevedibilità dei mercati. Trovare le risposte giuste alle domande di routine su come gestire le scorte, posizionare i prodotti, ingaggiare i clienti, impostare investimenti e finanziamenti sono tutte attività possibili solo attraverso l’uso delle analisi dei dati. Gli esperti ripercorrono le tappe di uno sviluppo iniziato qualche anno fa sapete dove? Non in seno alle aziende ma nelle sedi sportive delle squadre di baseball americano e, successivamente, in occasione delle elezioni politiche a stelle e strisce.
Gestire l’imprevedibile utilizzando algoritmi sempre più sofisticati è diventato un tema che sta chiamando a raccolta decine di ricercatori. Paradossalmente per parlare di dati bisogna usare… dei dati. Ci sono ricerche che raccontano come ci sia molta fiducia nei dati e nelle analisi da parte dei manager che, infatti, hanno lavorato nel corso degli anni per migliorare la qualità dei dati aziendali. Eppure i Chief Executive Officer continuano ad avere dubbi in merito alla possibilità di un uso scientifico delle informazioni.
Cosa succede se i CEO non si fidano dei dati
Secondo un sondaggio condotto da KPMG su un campione di 400 amministratori delegati degli Stati Uniti, quasi 8 manager su 10 (il 77%) nutre una certa diffidenza verso la qualità dei dati su cui si basano le loro decisioni. Solo il 33% dei CEO dichiara di avere un alto grado di fiducia nella precisione dei dati a disposizione e nel livello dei relativi strumenti di analisi.
“Si può creare la migliore scienza dei dati di tutto il mondo – ha commentato Wilds Ross, Principal of Data and Analytics presso KPMG -, ma se un manager non si fida dei risultati è tutto inutile. In gergo, lo chiamiamo deficit di fiducia. Eppure oggi ci sono tantissimi dati di qualità così come diversi strumenti di analisi che funzionano molto bene. Peccato che spesso non siano utilizzati dalle aziende. Le analisi predittive, invece, dovrebbero essere considerate dai C-Level come uno strumento indispensabile del business“. Uno dei motivi di questo atteggiamento negativo viene dal grosso divario che esiste ancora tra gli obiettivi di chi si occupa delle tecnologie di data analysis e gli obiettivi dei CEO. “Il problema è spesso di comunicazione – ha proseguito Ross -. A volte i dati vengono presentati in strutture modello scatola nera, con un messaggio che, in estrema sintesi, richiede ai manager di fidarsi e basta. Certo è che le figure più senior si interrogano rispetto a un’accettazione tout court di questo tipo di strumenti, facendosi domande del tipo: come faccio a sapere che questo funziona davvero come me lo presentano? Come faccio a sapere che la codifica è davvero priva di errori?”.
Per colmare il gap, secondo Ross è necessario prima di tutto migliorare gestione dei dati e fare in modo che i Data Scientist affianchino gli executive per guidarli lungo tutto il processo che porta all’output dell’analisi. Questi messaggeri del Big Data Management, secondo il portavoce di KPMG, non devono relazionarsi sempre come se di fronte a loro ci fossero le persone più intelligenti e brillanti del mondo. Le analisi, infatti, sono nate per aiutare le persone a prendere decisioni all’interno delle loro organizzazioni: sono sistemi fatti per aiutare gruppi di lavoro e, come tali, devono essere compresi bene da ogni membro del gruppo, non solo dalle menti più brillanti del team. Insomma, l’esperto riporta la palla dei Big Data al centro, sottolineando come il problema di fiducia viene dalla comprensione e la comprensione viene dall’uso di un linguaggio fatto per essere capito da chi deve ascoltare, non solo da chi deve spiegare.
Provisioning e Big Data Management
Un altro punto chiave del Big Data Management segnalato da KPMG è infatti quello di partire bene da chi sono gli interlocutori: i data scientist devono focalizzarsi sempre su chi sono e su come ragionano i decision maker. Uno dei punti di debolezza dei tecnici dei dati e degli operatori economici è di lavorare sulle tecnologie più recenti, ignorando quali sistemi in realtà siano già utilizzati in un’azienda e quali siano i modelli e i linguaggi condivisi. Il risultato è che gli strumenti di analisi offrono una rappresentazione dei dati che non aiuta i decision maker a capire. Senza ragionare per obiettivi, avendo in mente quali sono le esigenze dei decision maker, i data scientist non sono in grado di trovare le risposte che i CEO e gli executive stanno cercando. Troppo spesso, i dati sono analizzati e presentati da persone che non capiscono il business. I membri dei team di analisi raramente si confrontano e parlano con i decision maker su come loro agiscono per prendere le loro decisioni e questo crea un punto di interruzione nella comunicazione e nello sviluppo.
Riuscire a risolvere il Big Data Management attraverso l’uso di analitiche allineate i bisogni aziendali è possibile solo se i data scientist si calano nel contesto aziendale in cui questi dati e queste analisi devono essere utilizzate. BIsogna modellizzare i processi decisionali e farne un cardine della programmazione. Non sarà così solo il Ceo ad avvantaggiarsi degli strumenti previsionali ma tutta l’organizzazione. Solo così si creerà quel rapporto di fiducia che in questo momento manca e crea uno scollamento tra chi sa gestire i dati e chi li deve usare per prendere decisioni strategiche per il business.