Crediamo di poter sostenere che la competitività di un’impresa dipenda con pari importanza da tre fattori, che potremmo chiamare del “chi”, del “cosa” e del “come”. Il primo infatti sta nella qualità, sia intrinseca sia in rapporto agli obiettivi aziendali, delle persone che ne fanno parte; il secondo nella qualità, sia oggettiva sia in relazione ai mercati, dei suoi prodotti e servizi e del modello di business della sua offerta; il terzo nella qualità dei suoi processi aziendali. Ma se l’importanza dei primi due driver è universalmente accettata, per il terzo il discorso è, in una certa misura, in discussione. Questo dipende dal fatto che la qualità di un processo di business, intesa come la capacità di contribuire sia all’efficienza dell’impresa sia all’efficacia nel raggiungerne gli obiettivi, non dipende tanto da come questo processo è stato disegnato, ma anche e soprattutto da come viene eseguito. Un compito che da quando i computer sono entrati nelle aziende spetta essenzialmente alla funzione It. È quindi dall’It, depositaria della conoscenza dei processi aziendali e degli strumenti che ne abilitano la gestione ed esecuzione, che dipende in larga misura quella “ability to execute” che permette a un’impresa, con un’offerta valida e guidata da persone capaci, di ottenere il giusto successo.
La capacità di gestire i processi è fondamentale nelle fasi di crisi. Infatti, ha ricordato Annamaria Di Ruscio, direttore generale di NetConsulting (www.netconsulting.it), nell’intervento che ha aperto l’Executive Dinner organizzato da ZeroUno in collaborazione con Ibm Italia (www.ibm.com/it) a Milano e dedicato appunto al Business Process Management (che ha visto la partecipazione al dibattito moderato dal direttore di ZeroUno, Stefano Uberti Foppa, di una ventina di Executive IT), le crisi segnano dei punti di svolta dai quali non si torna più indietro. Nella ripresa che segue ad ogni crisi e ne segna il ciclo, si crea infatti una condizione di normalità che non è più quella di prima ma presenta elementi nuovi. Di questa “nuova normalità” sono chiari sin d’ora due punti d’evidenza: la centralità del cliente e la ricerca della flessibilità operativa dei business, che per l’It si traduce nella rapidità con la quale il back-end può rispondere agli stimoli che, tramite il front-end, giungono da clienti e mercati che hanno aspetti e problemi diversi dal passato. A questa evoluzione i Cio reagiscono con strategie che tipicamente fondono, in diversa misura, due approcci: uno orientato in prevalenza a una migliore gestione e valorizzazione del presente in chiave di efficienza e riduzione dei costi, e uno orientato prevalentemente invece alla sua innovazione in chiave di supporto al business nel contesto di nuova normalità che si andrà ad affrontare. Nella sua capacità di promuovere entrambi questi aspetti, il Bpm si rivela lo strumento in grado di alimentare quel circolo virtuoso che attraverso il ciclico controllo e rimodellazione dei processi ne affina l’efficacia nel sostenere il business e contribuire alla competitività dell’impresa.
Conquistare l’ownership dei processi
Come sempre accade quando si introducono metodologie e strumenti che vengono ad incidere sul modo in cui un’organizzazione svolge le proprie attività, uno degli ostacoli maggiori al Bpm è di carattere culturale. È difficile che un progetto di gestione dei processi aziendali tramite soluzioni di Bpm venga avviato in modo autonomo da parte dell’It se manca il sostegno dei responsabili del business.
Un punto fondamentale nella questione dei rapporti tra business e It a proposito del Bpm è la cosiddetta “ownership” dei progetti aziendali, ossia quale funzione, per scelta precisa (caso raro) o per cultura aziendale, ne sia “proprietaria” o ritenga di esserlo. Diciamo così perché dalla discussione in tavola rotonda è emerso che al business non interessa più di tanto la proprietà dei progetti. Chiede solo, e giustamente, che funzionino e soprattutto preme sulle urgenze. Quello che spesso succede (e in un dibattito tra responsabili It, questo ha il suono di un’autocritica) è in realtà un’attribuzione di ownership dei processi da parte del business che deriva dal “vuoto di potere” lasciato da quei Cio che hanno un atteggiamento più reattivo che propositivo.
L’ownership dei processi aziendali da parte del business non sarebbe di per sé un male, se non fosse che la gestione dei processi funziona bene quando questi sono controllati da poche persone. E poiché i processi aziendali sono in gran parte trasversali a più funzioni aziendali (commerciale, amministrativa, produzione…) il fatto che queste se ne sentano proprietarie ne ostacola parecchio l’evoluzione. Occorre quindi che il Cio, che è l’unico in azienda ad avere una conoscenza trasversale a tutti i suoi processi, sappia fondere nella sua figura gli approcci di gestione ed innovazione dell’It, portandola ad assumere la proprietà e l’organizzazione dei processi aziendali, definendone le regole e calandole in un workflow che in una certa misura “obblighi” l’utente a seguirle. Questo lavoro va, come è ovvio, fatto in tandem con i responsabili del business, ma il Cio può trarre vantaggio dell’attuale fase di ricerca di riduzione dei costi per giocare la chiave del guadagno di efficienza che il Bpm può dare, proponendo progetti capaci di dare un vantaggio visibile e a breve termine. (Bloise, Ballabene, Petracca, Lorusso, Pittoni, Di Ruscio, Rivezzi).
Partire per gradi ma portare risultati
Uno dei primi problemi che l’It deve affrontare nel considerare l’implementazione di una soluzione di Bpm è, come intuibile, da quali processi aziendali cominciare. Una situazione ideale sarebbe quella in cui si potessero applicare metodologie e strumenti di Bpm a tutti i processi chiave dell’impresa, ma ciò non può accadere se non in rari casi. Escludendo, come teorica, l’idea di un’impresa che parta da zero, una situazione del genere si può in pratica verificare solo quando in una grande organizzazione viene deciso di avviare un business, o comunque un’attività, di nuovo tipo, con processi esclusivamente pertinenti alle nuove operazioni. In tal caso l’It può decidere di “chiudere” l’esecuzione delle relative applicazioni in un ambiente isolato (magari affidandosi ai servizi di un outsourcer) cui applicare gli strumenti di Bpm prescelti. Quando si sono presentate situazioni del genere sono stati ottenuti risultati positivi, ma, come si è detto, si tratta di casi rari. Nella grande maggioranza delle situazioni, l’avvio delle metodologie di Bpm avviene per gradi, con progetti che tendono a riutilizzare per quanto possibile servizi e applicazioni già presenti nell’impresa.
Un approccio più praticamente realizzabile, e consigliabile, è pertanto quello di analizzare l’insieme dei processi aziendali individuando quelli più adatti ad essere rivisti attraverso soluzioni di Bpm nell’ottica di avere un maggiore e più rapido ritorno dell’investimento. Tali processi sono principalmente di tre tipi: processi vecchi e consolidati ma che funzionano male, nel senso soprattutto di uno spreco di risorse (e qui occorre che l’It abbia un buon presidio dello sviluppo e della manutenzione del software per sapere quanto spende per il ciclo di vita delle applicazioni aziendali); processi relativamente nuovi che possono rivelare delle inadeguatezze e che, trovandosi ancora in una fase di affinamento, si prestano ad essere “raddrizzati” con qualche intervento; processi infine non necessariamente nuovi ma che sono comunque ancora da disegnare, una situazione che rientra in parte nella casistica delle “partenze da zero” di cui si è detto e che si verifica principalmente in due circostanze: quando a seguito di una riorganizzazione della struttura aziendale i processi relativi a certe operazioni, anche di routine, devono essere cambiati e quando, a seguito di fusioni o acquisizioni, processi diversi inerenti un medesimo servizio vanno sostituiti da un processo nuovo. Questi tre tipi di processi hanno una cosa in comune: il fatto che le unità di business, vecchie o nuove che siano, che ne sono proprietarie si aspettano dalla loro revisione dei risultati concreti e immediati. Le attese su questi progetti sono però un’arma a doppio taglio: se da un lato li rendono, come si è detto, i candidati ideali al Bpm, dall’altro lato mettono sotto pressione l’It, che si trova spesso forzato a dare la priorità alla delivery del servizio piuttosto che all’affinamento del processo relativo. (Lorusso, Wolter, Botti, Petracca, Riboni, Raimondo).
Lo strumento non è un problema
Dopo aver parlato dei problemi inerenti il “chi” e il “cosa” fare, veniamo a quegli aspetti del “come” che possono risultare di un qualche freno all’adozione e soprattutto a un effettivo ritorno dei benefici attesi da un progetto di Bpm. Partendo però da una considerazione positiva: parte dei problemi che si possono incontrare in un progetto di Bpm hanno nel Bpm stesso la loro soluzione. È il caso dei Key performance indicator, elementi chiave di un sistema di Bpm: estrarre dei Kpi capaci di indicare le performance dell’azienda nei confronti del business è un lavoro difficile, lungo e che spesso si fonda su valutazioni soggettive dei vari responsabili di funzione. Ma le soluzioni di Bpm offrono strumenti in grado di fare un monitoraggio costante dei processi ed elaborare indicatori su basi oggettive, identificando le aree dove le prestazioni possono essere migliorate: è un vantaggio tale da guadagnare l’appoggio del top management e far passare in secondo piano i problemi che si possono presentare. Un altro aspetto capace di inficiare un progetto di Bpm è la mappatura dei processi, che ogni funzione aziendale toccata dal processo vede dal proprio punto di vista e mappa secondo i propri criteri. Il problema nasce dalla visione “a silos” dei processi da parte delle linee di business. Per risolverlo occorre creare team di analisi interfunzionali che siano però governati dall’It.
Meglio ancora, bisogna che all’It (con l’eventuale sostegno del top management) venga riconosciuta l’ownership dei processi aziendali, diventando essa stessa il riferimento delle linee di business. Parlando infine degli strumenti tecnologici del Bpm, i punti che hanno suscitato le maggiori discussioni sono due. Uno è che possano in qualche modo limitare la capacità da parte dell’utente business d’intervenire sulle regole dei suoi processi, cosa che deve invece poter fare.
In realtà, si è poi visto che questo è più un timore che un problema, dato che gli strumenti in causa hanno motori di regole che pur impedendo interventi incontrollati lasciano all’utente ampia libertà d’azione.
L’altro punto è che strumenti oggettivamente molto innovativi siano poi affidati a persone (si parla ancora degli utenti) che non solo non ne hanno esperienza, ma a volte nemmeno la cultura che permetta loro di farsela, con il risultato di dover ricorrere a una costosa formazione. (Wolter, Ferrario, Rivezzi, Todaro, Lorusso).
Bpm: innovazione nei processi
Affidabili, flessibili, automatizzati ed efficienti. Tali devono essere i processi di business per consentire all’azienda la dinamicità e capacità di innovazione necessarie ad emergere sul mercato. L’It deve quindi gestire i processi con strumenti che aiutino a generare valore. In quest’ottica le soluzioni di Business Process Management di Ibm (www.ibm.com/it) offrono pieno supporto nell’identificare, visualizzare, documentare e rappresentare in modelli i singoli processi di business; nell’automatizzarne con un motore di workflow l’esecuzione e nella loro gestione end-to-end con il monitoraggio costante del livello delle performance secondo i Kpi prestabiliti. Il portafoglio delle soluzioni Ibm in quest’area fa parte dell’offerta Smart Work e comprende la Bpm Suite (con i relativi servizi di Operations Strategy) e WebSphere Ilog. Importanti sono anche le soluzioni di collaborazione Ibm Lotus e Ibm WebSphere, nonché la Ibm Smart Soa, che in un sistema dall’architettura orientata ai servizi permette di estrarre servizi business riusabili dal proprio portafoglio applicativo. (G.C.B.)
I protagonisti dell’evento
Questi i manager che hanno partecipato alla tavola rotonda
di ZeroUno, coordinata dal direttore Stefano Uberti Foppa.
– Maurizio Agazzi – Direttore Sistemi Informativi di Robur
– Alberto Alliata – Direttore Sistemi Informativi di Caleffi
– Marco Andolfi – Responsabile Sistemi Informativi di Cbs Outdoor
– Paolo Ballabene – Responsabile Sistemi Informativi di Tnt Global Express
– Rainer Battisti – Responsabile Sistemi Informativi di Unieuro
– Vincenzo Bloise – Responsabile Sviluppo Sistemi Commerciali e Assistenza alla Clientela, di Trenitalia
– Federico Botti – Manager of WebSphere & Soa di Ibm
– Alessandro Cagnola – Direttore Sistemi Informativi di Compagnia Generale Trattori
– Giampiero Carli Ballola – giornalista di ZeroUno
– Guido Di Dario – Cio di De Agostini
– Sergio Errigo – Direttore Sistemi Informativi di Sint
– Mario Giovanni Ferrario – Responsabile servizio Age di Fiditalia
– Jose Gonzalez Galicia – Direttore Responsabile It di Carat Centro Media
– Gianfranco Lorusso – Condirettore Generale e Responsabile Divisione Sistemi Informativi di Ubi Sistemi e Servizi (Ubi Investnet International )
– Andrea Mattasoglio – Direttore/Responsabile Sistemi Informativi di Cilea
– Maurizio Petracca – Responsabile sistemi corporate, architetture e progetti della Direzione Macchina Operativa di Sia-Ssb
– Michele Pittoni – Direttore Corporate Organizzazione Ict di Isagro
– Marco Raimondo – Websphere Business Development di Ibm
– Adriano Riboni – Cio di Sanofi Aventis Italia
– Nicola Rivezzi – Cio di Firema
– Giovanni Todaro – WebSphere Marketing Leader, Southwest Europe di Ibm
– Carlo Wolter – Direttore Generale di Tecnimex