Con un comunicato congiunto emesso giovedì 23 gennaio, Ibm e Lenovo Group hanno annunciato di aver raggiunto un “accordo definitivo” in base al quale la prima cederà alla seconda tutte le attività relative all’offerta server x86. Più precisamente, passeranno al gigante cinese (che nel 2005 aveva acquisito da Ibm la divisione personal computer e oggi, con un fatturato di 34 miliardi di dollari, si alterna ad Hp per la posizione di primo produttore al mondo in area Pc) i server System x, i blade server Blade Center e, soprattutto, le recenti linee di sistemi integrati x86 ad alte prestazioni e densità Flex System, NeXtScale e iDataPlex, con i relativi software dedicati. Con la vendita dei sistemi (che includono l’infrastruttura di networking), Lenovo si assumerà gli oneri relativi alla manutenzione e al customer service, le cui attività saranno materialmente svolte da Ibm per un periodo tempo non precisato ma tale, viene assicurato, da garantire agli utenti una transizione indolore. Naturalmente, l’attuazione dell’intesa è soggetta ai vincoli di legge e statutari del caso, ma questi punti sono già stati vagliati dai legali di ambo le parti e l’operazione si può considerare cosa fatta, per un importo dichiarato pari a circa 2 miliardi di dollari ‘cash’ più 300 milioni in azioni Lenovo. È una bella cifra, quasi il doppio di quanto otto anni fa era stato pagato il business dei Pc. Ma non è l’aspetto economico della transazione, che non peserà più di tanto sui profitti dei contraenti, a ‘fare notizia’ quanto gli effetti che questa avrà sulle strategie delle due società.
Per Lenovo, il discorso è abbastanza lineare: per una cifra che non la mette a rischio (ha riserve di cassa di oltre 2,6 miliardi di dollari) la società fa il salto di qualità che le permette di passare al più profittevole e più stabile mercato delle infrastrutture per data center con un’offerta dal ‘brand’ riconosciuto e di alto livello tecnologico in un settore, quello appunto dei server x86, che è in crescita e tutti gli indicatori mostrano come il più suscettibile di crescere ancora. Diciamo che è un ottimo affare (per il quale si era messa in lizza anche Dell, con una mossa alquanto sorprendente che avrebbe comportato il ribaltamento di una strategia già delineata, dove servizi e software hanno un peso sempre maggiore, oltre agli intuibili problemi di conflitti e sovrapposizioni di offerta) che le fa guadagnare in un colpo know-how tecnologico, relazioni di canale e una non trascurabile base installata, soprattutto in Europa. Anche il fatto di dover assorbire da Ibm qualcosa come 7.500 dipendenti (che può essere stata una ragione della rinuncia di Dell) per Lenovo non è troppo oneroso, data la sua struttura in gran parte basata in Paesi dal mercato del lavoro flessibile e competitivo. Con la dimostrata capacità di competere nel mercato delle Pmi, per Hp e Dell, la vita si farà più difficile.
Per Ibm il discorso è, ancora una volta, quello dell’orientamento strategico verso settori a più alto valore aggiunto e dove il fattore-prezzo è meno determinante. Nonostante in area server la competizione non si giochi solo sul costo, i margini di profitto per le macchine x86 restano piuttosto bassi, nettamente inferiori a quelli degli enterprise server basati su Unix e processori dedicati. Non a caso Ibm ha mantenuto per sé il business dei server Power (per i quali è in arrivo a breve una nuova versione del processore), così come Oracle e Hp mantengono le rispettive e analoghe linee d’offerta, che pur indirizzandosi a un mercato numericamente limitato offrono margini molto maggiori. Inoltre, come osservato da Idc, nonostante gli indubbi investimenti (la notizia della cessione è giunta una settimana dopo l’annuncio della nuova architettura X6, che ottimizza le prestazioni dei System x) Ibm non ha raggiunto nel mercato x86 volumi tali da realizzare i risparmi di scala necessari per essere competitiva. Su queste premesse, si giustifica la dichiarazione di Steve Mills, senior Vp e Group Executive di Ibm Software & Systems, sull’interesse della Casa di Armonk di soddisfare le necessità dei suoi utenti più con la fornitura di IaaS (infrastructure-as-a-service) via cloud che con la vendita di sistemi nei quali, oltretutto, ha solo in Europa una quota di mercato importante. Con uno spostamento di risorse sia umane sia economiche, Ibm si potrà meglio focalizzare, ha detto ancora Mills, in aree strategiche come i big data, il cloud e il cognitive computing. In queste ultime due aree Ibm ha stanziato investimenti per 1,5 miliardi e 1 miliardo di dollari, rispettivamente nell’estensione a livello geografico globale dei data center per i servizi cloud e nella creazione del Watson Group (business unit dedicata allo sviluppo e alla commercializzazione di soluzioni innovative nell’area del cognitive computing erogate in modalità cloud). Due investimenti la cui somma, sarà un caso, fa quasi la stessa cifra che tra poco le entrerà in cassa.