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Produttori di elettronica e di CO2: Greenpeace valuta fatti e promesse

Durante la recente impennata di produzione registrata maggior, la parte delle 11 big della supply chain elettronica globale hanno aumentato i consumi di energia elettrica e le emissioni di CO2. Alcune stentano anche a promettere di ridurli in tempo utile per rispettare l’Accordo di Parigi. In un recente report, luci e ombre all’orizzonte, guardando al 2030 e al 2050

Pubblicato il 19 Gen 2024

Immagine di PopTika su Shutterstock

Quando ha studiato come i big dell’elettronica di consumo stanno reagendo al pressing che tutti compiono su di loro per ridurre le emissioni, Greenpeace ha notato un certo impegno. Alcune avevano anche già raggiunto il 100% di energie rinnovabili.

L’esito sembrava essere incoraggiante, considerando che si stava analizzando un mercato globale che nel 2023 sta generando un fatturato di circa 1.052 miliardi di dollari, per giunta con un tasso di crescita annuo previsto maggiore del 2% fino al 2028

Era l’anno scorso e non si era tenuto conto di un fattore: le emissioni della catena di fornitura dell’elettronica. Secondo alcune stime, proprio queste già rappresentano il 70% delle emissioni dell’intera industria elettronica. Non è quindi una dimenticanza da poco, considerando anche il fatto che sono destinate ad aumentare. Greenpeace riporta infatti che, nel 2030, “la sola industria dei semiconduttori emetterà 86 milioni di tonnellate metriche di anidride carbonica equivalente (CO2e)” e che “la produzione di semiconduttori è destinata a consumare 237 terawattora (TWh) di elettricità a livello globale”.

Per fornire un quadro più esaustivo dell’impatto ambientale del settore dell’elettronica di consumo, quindi, supply chain compresa, quest’anno ha deciso di focalizzarsi proprio su quest’ultima, stilando un report ad hoc in cui analizza gli sforzi di decarbonizzazione di 11 tra le più grandi aziende al mondo tra le fornitrici di elettronica.

Sì, PPA, no REC: oltre al “quando”, conta il “come”

Analizzando quanto avvenuto nel 2022, Greenpeace ha calcolato che le aziende considerate, prese tutte assieme, hanno consumato circa 111.000 GWh, una quantità di energia elettrica nove volte superiore a quella consumata nello stesso arco di tempo dall’intero Cile. In media, quella rinnovabile ha costituito solo il 20%: non si sta facendo abbastanza per ridurre le emissioni di anidride carbonica, secondo l’organizzazione che afferma: “per rispettare l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di 1,5°C, i fornitori di elettronica devono raggiungere il 100% di energia rinnovabile nelle loro catene di fornitura entro il 2030”.

Questo 100% serve, è un obiettivo importante e che non bisogna mai smettere di ricordare, ma senza che ci si dimentichi del percorso da compiere per raggiungerlo. Questione di metodi, ma una questione molto importante, che fa e farà sempre di più la differenza. Quelli di approvvigionamento ad alto impatto, come gli accordi di acquisto di energia (PPA) e gli investimenti diretti nelle energie rinnovabili, sono di gran lunga preferibili a quelli a basso impatto come i certificati di energia rinnovabile (REC). Gli ultimi citati sono infatti metodi che non incoraggiano la produzione di nuovi impianti eolici o solari e concorrono al permanere della produzione di energia tramite combustibili fossili, quando sole e vento scarseggiano.

Greenpeace ci tiene a precisare questo aspetto, dopo aver visto che gran parte delle aziende big opta per i REC. Nel suo report le definisce una pratica che “consente di affermare di aver ridotto le proprie emissioni di portata 2 semplicemente staccando un assegno, mentre si continua a emettere gas serra come prima”.

Promesse Net Zero 2050, senza passare dal 2030

La situazione descritta nel documento ha toni cupi più che green, ma è necessario non generalizzare. Ogni sfumatura può significare grandi quantità di emissioni in più o in meno, quindi si devono fare le dovute precisazioni, azienda per azienda.

Nel 2022, rispetto al 2020, solo cinque tra le principali produttrici di elettronica considerate hanno aumentato la propria produzione, di elettronica ma anche di emissioni. Nel contempo, ben otto hanno promesso di raggiungere obiettivi Net Zero entro il 2050, ma nessuna cita l’obiettivo di dimezzarle per il più vicino 2030. Uno sprint finale, ammesso che sia possibile, non sarebbe sufficiente- fa notare Greenpeace – per rispettare l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di limitare a 1,5°C il riscaldamento globale.

Il record di emissioni e di consumo di elettricità maggiori, per ora, è da attribuire alla taiwanese Foxconn, azienda produttrice anche per Apple. Il suo utilizzo di elettricità rinnovabile, in proporzione al consumo totale, è stato stimato attorno all’8% nel 2022 e le emissioni di CO2 superiori a quelle dell’Islanda nello stesso periodo.

Samsung, pur ribadendo con convinzione il suo piano di transizione al 100% di energia rinnovabile entro il 2050, si fa riconoscere per la lentezza con cui si sta approcciando al problema. Non cita alcun obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2030 e continua a dipendere da metodi di approvvigionamento a basso impatto per l’elettricità rinnovabile. Quelli che Greenpeace sconsiglia.

Qualche buona notizia traspare tra le pagine del report, però, e la prima riguarda TSMC. Prendendo le distanze dalla sua connazionale Foxconn, TSMC ha anticipato il suo obiettivo del 100% di energia rinnovabile dal 2050 al 2040. Una mossa che potrebbe essere imitata anche da altre.

Meglio ancora sembra stia facendo l’americana Intel, che intende passare al funzionamento con il 100% di energia rinnovabile entro il 2030. Lo ha promesso pubblicamente, inserendo tale obiettivo nel suo recente Piano d’azione per la transizione climatica. Sembra voglia puntare molto su metodi di approvvigionamento a basso impatto, come i certificati di energia rinnovabile. Anche se così fosse, dopo aver letto questo report di Greenpeace, avrebbe il tempo e i modi di cambiare idea.

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