Data warehousing: i problemi, le aspettative

Realizzare una ‘information platform’ che abiliti un accesso unificato all’intero patrimonio dei dati e dei documenti aziendali per estrarne immediatamente le informazioni utili alla gestione del business e alla definizione delle strategie dell’impresa. Questa è la tendenza del data warehousing, inteso come base della ‘corporate intelligence’. E questa è la strada su cui si è avviata la tecnologia. Parliamo allora con analisti, fornitori, e soprattutto con le aziende utenti, delle nuove tendenze in area Bi e data warehouse e dei problemi cui occorre essere preparati per avviare un progetto di successo

Pubblicato il 09 Giu 2009

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Tra le tematiche dell’It, i cui sviluppi tecnologici e le cui applicazioni ai fini del business vengono seguite con assiduità su queste pagine, un posto di rilievo spetta certamente alle soluzioni di business intelligence e ai sistemi di Data warehousing che della Bi sono l’infrastruttura abilitante. Questo mese ne parliamo in quanto sono state oggetto di un ‘Executive Dinner’ tenutosi due mesi fa a Milano nell’ambito degli incontri che ZeroUno periodicamente organizza con le aziende utenti per discutere, con l’aiuto di analisti e di esponenti dell’offerta, i problemi dell’informatica applicata al business. Di tale evento, cui hanno partecipato numerosi Cio, It manager e responsabili di business unit, e di quanto più significativo ne è emerso diamo una sintesi a beneficio di tutti i lettori.

Come osserva Stefano Uberti Foppa (nella foto), direttore di ZeroUno, presentando il tema dell’incontro, l’aumento della complessità che investe tutte le attività di un’impresa coinvolge anche e soprattutto la gestione delle informazioni, andando a colpire la nuova ‘information company’, quell’impresa cioè che dell’informazione e della conoscenza che ne deriva fa il suo maggiore asset competitivo. Ovviamente, la tecnologia viene in aiuto con soluzioni specifiche studiate per dare un ordine e un governo a tale complessità e la cui applicazione innalza l’uso delle informazioni da strumento di gestione del business a strumento a supporto delle strategie aziendali. L’interesse che le imprese utenti mostrano verso tali soluzioni è dimostrato dall’andamento del relativo mercato, in controtendenza rispetto al generale rallentamento dell’It. Tanto che l’Osservatorio Business Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano prevede una crescita dell’8% annuo negli acquisti di soluzioni Bi nel quinquennio 2009-13. Ma, conclude Uberti Foppa: “non esiste una soluzione tecnologica ottimale se non viene calata in un contesto aziendale, comprendente organizzazione, processi e competenze, in grado di trarne beneficio”. Ed è appunto lo scambio di vedute e di esperienze su questo aspetto del problema che è l’obiettivo e il valore proposto.

Lo scenario dell’Information Management viene poi esposto da Fabio Rizzotto (nella foto), analista e research manager di Idc, che ne sintetizza stato e prospettive nei seguenti punti. In primo luogo, a fronte di una continua crescita, in volumi ed eterogeneità, delle informazioni in parte o in tutto destrutturate, esiste una parallela crescita della criticità che tali informazioni hanno nei confronti del business. In secondo luogo crescono le figure aziendali che elaborano e usano informazioni, i cosiddetti ‘information worker’, potenziali utenti di soluzioni di Bi. Oggi chiunque non abbia compiti puramente esecutivi passa, secondo Idc, il 48% del tempo nella ricerca e analisi d’informazioni. Infine, queste tendenze vanno coniugate con i livelli di disponibilità e prestazioni richiesti dai processi decisionali e operativi di un’impresa che vuol restare competitiva. Si impone quindi, nella visione Idc, una soluzione che dia un accesso unificato a dati di ogni tipo (strutturati forniti da Erp e applicazioni business; semi-strutturati da spreadsheet e moduli; destrutturati da e-mail, siti Web, appunti e documenti vari, sino, in prospettiva, alle immagini e alle audio e video registrazioni). Una ‘Information Platform’ al servizio delle varie applicazioni analitiche in cui si declina una Bi che pervade tutta l’impresa. Sul piano tecnologico questa visione ha un riscontro nella crescita dei sistemi che Idc chiama Business Analytics Appliances, ossia comprendenti un Data warehouse (DW) preconfigurato, ottimizzato e preinstallato su una piattaforma hardware (che può essere sia progettata ad hoc sia acquistata sul mercato) e fornito come singola unità. Secondo Idc, i vantaggi che i Cio riconoscono a quest’architettura rispetto alla tradizionale implementazione di

un DW su hardware acquistato separatamente stanno nella scalabilità e nelle prestazioni nell’esecuzione delle query, nel minor tempo di deployment, nella superiore availability e, non ultimo, nel miglior servizio derivante dall’aver a che fare con un unico fornitore.
Secondo Graziano Tosi (nella foto), project manager di Unicredit Global Information Services, “Sul fatto che la tecnologia sia oggi in grado di soddisfare le nostre richieste, non ho dubbi; mi chiedo però quale siano i modelli di dati e gli indicatori che ci permettano di legare le informazioni estratte ai processi che poi dobbiamo supportare; capire insomma se ciò che estraiamo è quello che serve davvero al business. In altre parole, come fare

nel momento in cui mi accosto al processo ad identificare gli indicatori che mi guideranno nella scelta delle informazioni da chiedere”. Il problema è sentito anche da Pierpaolo Argiolas (nella foto), responsabile standard Sicurezza e Communication di RFI (www.rfi.it), che osserva come: “non sempre tutte le informazioni che si conservano ed elaborano sono significative per l’impresa. Quanto più si sta a fianco di chi gestisce il business, tanto più si ha un’idea dei parametri di riferimento utili per costruire Kpi e report comprensibili anche ai non informatici, e tanto più un progetto avrà successo”. Per Stefano Perfetti (nella foto), incaricato It di A2A, questo problema

rientra tra quelli che sono, o dovrebbero essere, coperti dal mondo della consulenza. “Dal punto di vista tecnologico le soluzioni di cui si è parlato [Exadata/Oracle ndr] sono certamente un grande passo avanti, specialmente nei confronti di rilevanti volumi di dati, ma il limite resta nell’effettiva capacità di trarre valore dalle informazioni ottenute, che dipende a sua volta dalla capacità di leggere le necessità dei nostri utenti”.
Interessante la replica di Gherardo Infunti (nella foto), technology insight program director di

Oracle a questi interventi: “La tecnologia è solo uno dei componenti necessari ad un’infrastruttura che aiuti a prendere decisioni correlate agli obiettivi aziendali. Occorrono anche persone, processi e metodi”. Occorre quindi un approccio sistemico che parta dall’analisi dei requisiti per proseguire con il disegno dei dati e, soprattutto, la revisione dei sistemi sorgente per garantire che il tutto funzioni su dati certi e consistenti. L’architettura tecnologica viene per ultima: “Il Data warehouse non è il problema; è il pettine al quale arrivano tutti i nodi derivanti dai problemi precedenti”.

La disamina del manager Oracle è largamente condivisa da Mario Migliori (nella foto), responsabile area applicazioni di Banca Popolare di Milano, che però fa notare come le richieste degli utenti, punto di partenza per l’analisi dei requisiti, non siano declinabili in dettaglio “perché altrimenti non stiamo cercando una conoscenza, ma semplicemente un quadro informativo di ciò che abbiamo già prefigurato. Inoltre – prosegue Migliori- per dare realmente valore, la Bi deve essere portata al livello operativo, resa pervasiva, come Idc ha detto. Ma se l’It può, con qualche problema, realizzare una pervasività tecnologica non può creare una pervasività culturale. Se i sistemi informativi sono già

tra loro funzionalmente correlati, ciò non vale per le persone, specie nel middle-management. Ed è da questo che nasce il problema dei diversi sistemi sorgente e della qualità dei dati”. Questo discorso è completato da Fiorenzo Moschetti (nella foto), servizio organizzazione e sistemi informativi di Banca Popolare di Sondrio, che ricorda, pragmaticamente, come al problema di capire quali informazioni elaborare per rispondere alle richieste del business occorre aggiungere anche a quello di capire quali dati estrarre per conformarsi alle richieste, impellenti e improrogabili, imposte dal legislatore.

Un problema diverso viene posto da Matteo Penzo (nella foto) planning e procedures di Gabetti, un’azienda che non tratta grandi volumi di dati ma le cui informazioni si basano in massima parte su dati non strutturati, come possono essere le caratteristiche descrittive di un immobile. E anche per Alessandro Balduzzi (nella foto), Project Manager di Adecco Information Technology, è importante la capacità di gestire dati non strutturati, quali sono i due milioni di

curricula registrati dalla società.

Alla richiesta di capire come e in che direzione stia andando la ricerca al riguardo, risponde Enrico Proserpio (nella foto), director sales consulting di Oracle citando le tecnologie Oracle per l’analisi dei dati spaziali (aree e volumi) adottate dal Catasto e quelle per correlare tramite elementi geografici condivisi informazioni disparate (per esempio, rapportando il valore degli stabili al numero di cantieri presenti sullo stesso territorio).
Infine, il modello tecnologico di Data warehousing proposto dalle appliance è stato al centro degli interventi di Andrea Amato (nella foto), coordinatore settore

Clinico-Sanitario dell’ Azienda Ospedaliera San Gerardo di Monza, e di Michele Pittoni (nella foto), direttore Sistemi Informativi di Isagro. Il primo ha osservato come oltre all’incremento delle informazioni anche quello delle utenze sia un problema che incide seriamente sulle performance, e quindi come i vantaggi attesi dalle appliance siano appetibili in quelle realtà, come appunto gli ospedali, caratterizzate da un elevato numero d’analisi condotte contemporaneamente. Il secondo si è chiesto,

invece, se un sistema come quello proposto da Oracle non risolva il problema del Data warehousing… rendendolo superfluo. “Ho una macchina che contiene i dati e ha una capacità elaborativa tale che mi permette di fare applicazioni che vanno a leggersi i dati sul disco per quello che mi occorre sapere. Se sommo i costi dei sistemi di produzione a quelli dei sistemi di analisi posso trovare conveniente consolidare tutto, produzione e DW, su un unico sistema. Il DW, – conclude Pittoni – non esiste più in quanto tale, ma solo come un modo diverso di rappresentare i dati aziendali”. Un discorso che Infunti accetta, oggiungendo solo che la tecnologia abilitante di Exadata è quella del grid computing, che permette appunto a più macchine di operare con logiche indipendenti sugli stessi dati.


Due parole sulla tecnologia

Oracle Exadata è un’appliance costituita da un rack contenente otto server Hp ProLiant (ad architettura x86 industry standard), ciascuno dei quali ha preinstallato un Dbms Oracle di ultima generazione ed il software di clustering che permette loro di funzionare in modalità massive parallel processing. Connesse ai server con soluzione Infiniband e capacità di 20 Gb per secondo, vi sono altre otto unità, chiamate ‘celle’, che sono in grado di far girare una porzione del data base. Queste celle ricevono le informazioni relative alla query da eseguire ed estraggono i dati richiesti dalla propria porzione di database limitandosi, grazie ad una funzione chiamata SmartScan ad estrarre i soli dati necessari. Ciò riduce il transito dati tra i db server e lo storage, che per ogni rack Exadata può giungere a 12 Terabyte di capacità. Tutti i componenti sono ridondati per garantire la massima availability del sistema e questo viene venduto e installato da Oracle, che risponde anche degli eventuali interventi di manutenzione forniti da Hp.

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