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Il primo data center sottomarino è cinese e potente come 6 milioni di PC 

La nuova struttura realizzata attraverso una partnership pubblico-privato potrebbe essere la prima di una serie da 100. Se fosse sul suolo terrestre, in totale occuperebbe 13 campi da calcio e consumerebbe come 160.000 cinesi per mantenere le basse temperature. In attesa di veder sorgere gli altri data center simili, sempre in acque cinesi, ci si chiede se, dove e come l’idea, non nuova, stavolta sia concretamente replicabile in altri ecosistemi innovativi.

Pubblicato il 10 Gen 2024

data center sottomarino

Continuando a questo ritmo, presto non si saprà più dove conservare i dati: sembra quasi che già non si sappia dove mettere i data center richiesti dal mercato. Lo fa pensare la notizia di un nuovo progetto cinese realizzato sotto il livello del mare, il primo al mondo di tipo commerciale e molto probabilmente il primo di una lunga serie.

1.433 tonnellate di tecnologia a 35 metri di profondità

Per dargli un’occhiata è necessario raggiungere l’isola di Hainan, al largo della costa di Sanya, da cui la struttura tutta prende il nome. Si chiama infatti Hainan Undersea Data Center, è il risultato di una partnership tra governo cinese e aziende private e a volerlo realizzare è stata Highlander, una “eccellenza cinese”, specializzata proprio in data center, portata in palmo di mano dal governo stesso, convinto avrà un crescente peso a livello globale.

La struttura da 1.433 tonnellate è situata a 35 metri di profondità e sembrerebbe in grado – a quanto dichiarato dall’azienda stessa – di elaborare più di quattro milioni di immagini ad alta definizione in 30 secondi.

Nato per durare almeno 25 anni, il nuovo data center è frutto di un lavoro di ricerca e studio di anni. Il primo test della tecnologia e delle infrastrutture al contorno risale al gennaio del 2021. Non avvenne nel luogo che oggi ospita il primo centro, ma nel porto di Zhuhai, nel Guangdong. Sono seguiti poi successivi test in altre varie regioni cinesi, quelle che potenzialmente, in futuro, potranno ospitare altri UDC (Underwater Data Center). Non mancano le aziende dettesi interessate ad averne, tra cui big come China Telecom e SenseTime, società di Hong Kong specializzata in software di intelligenza artificiale e sorveglianza.

L’idea non è nuova, la differenza sta nel fatto che adesso è realtà ed è una realtà replicabile e commercializzabile. Già nel 2016 Microsoft aveva provato a testare il concetto di UDC, immergendo il suo primo centro dati Project Natick, al largo della costa pacifica degli USA. Dopo alcuni test effettuati anche negli anni a seguire, vicino alle isole Orcadi in Scozia, aveva poi abbandonato l’idea. O forse l’ha solo lasciata “in attesa”, causa complessità logistiche.

Pro e contro dei data center subacquei

È evidente che l’ambiente oceanico pone sfide tecnologiche non indifferenti, ma i vantaggi non mancano. Il primo, sottolineato dalla Cina, riguarda il consumo di suolo, un tema che all’Europa dovrebbe risultare caro, o almeno familiare. Con il suo piano che prevede 100 blocchi di data center come quello realizzato, entro il 2025, verrà occupata un’area di terreno pari a quello necessario per realizzare 13 campi da calcio, ovvero di circa 68.000 metri quadrati. Se lo si “occupa” sul fondo dell’oceano, lo si guadagna in superficie, potendo scegliere se regalare spazio verde ai cittadini o impiegarlo per altri scopi.

Altrettanto sensibile il tema del raffreddamento: nel caso degli UDC, ci pensa integralmente l’acqua del mare che funziona da refrigerante naturale, mantenendo basse le temperature intorno ai sistemi. Secondo le stime dell’azienda stessa, diventa possibile risparmiare circa 122 milioni di kWh di elettricità all’anno, quantità da equiparare al consumo medio di elettricità di 160.000 cittadini cinesi.

Questi due vantaggi fanno pensare che valga la pena copiare i cinesi e il loro progetto, cercando di farlo in modo tecnologicamente ineccepibile. Ciò significa tenendo conto che ci sono unità da oltre 1.400 tonnellate da riuscire a installare sott’acqua e, prima ancora, c’è da costruire in modo che si abbia la certezza siano in grado di resistere alla pressione e alla corrosione dell’acqua di mare.

Se lo facessimo nei nostri, ci sarebbe da affrontare anche l’incognita legata all’interazione con l’ambiente, non citata dai cinesi, e all’impatto che tali strutture potrebbero avere su di esso. Per ora, infatti, non è chiaro come questi enormi blocchi di elettronica potranno influenzare gli ecosistemi marini in cui sono inseriti. Una questione da non sottovalutare, “accecati” dal bisogno di spazio per i dati, se non fosse per sensibilità “personale”, perché strettamente legata agli obiettivi ESG che devono guidare ogni nostra scelta, anche in campo tecnologico.

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