Penetrazione della Soa: stato dell’arte e modello di adozione graduale

“La Soa sta accadendo” dice a ZeroUno Massimo Pezzini, VP Distinguished Analyst presso Gartner. “E’ più raro incontrare aziende che non stiano facendo niente con la Soa che aziende che quantomeno ci provano”, anche se non senza problemi e difficoltà. Vediamo quindi qual è il livello di penetrazione di questa architettura e quali le difficoltà incontrate in chi la sta implementando

Pubblicato il 14 Mar 2008

pezzinim

Abbiamo iniziato l’intervista a Massimo Pezzini, VP Distinguished Analyst presso Gartner chiedendogli se esiste un modello di maturazione su cui posizionare l’attuale stato dell’arte della Soa, per scoprire che lui stesso ha proposto un “modello di adozione”, sulla base della sua esperienza di analisi nelle aziende e nei diversi settori d’industria. È un “toolkit” Gartner sicuramente utile al Cio nell’impostare una scalata graduale verso la Soa, dalla sperimentazione verso un’adozione pervasiva nell’impresa. Nello stadio in cui la Soa diventa per forza asset interdipartimentale, emerge l’ostacolo più duro e, nel contempo, chiave del successo: la criticità della Soa governance per un business (culturalmente) allineato all’It, oltre che per l’ovvio viceversa.

ZeroUno: Qual è il livello di penetrazione della Soa per geografie, dimensione aziendale e settore d’industria?
Pezzini: Il fenomeno Soa è abbastanza omogeneo per geografie (Asia e Australia sono forse un paio d’anni indietro su Usa e Ue, dove la Soa è ormai mainstream). Per dimensione aziendale, l’architettura orientata ai servizi si è diffusa anche tra le medie aziende, realtà con fatturati dai 400 ai 600 milioni di euro. Quanto alla penetrazione per verticali il fronte “avanzato” va dalle telco, ai servizi finanziari, alle utility come l’energia (Enel ed Eni in Italia), all’automotive; a diversi livelli di maturità, c’è farmaceutico, pubblica amministrazione e travel. Insomma, la Soa dimostra di essere adatta ai diversi verticali.

ZeroUno: C’è un maturity model per la Soa su cui un’azienda può posizionarsi?
Pezzini: Sì, anche se, intendendolo a supporto alla penetrazione aziendale preferisco parlare di “Modello di adozione”. Analizzando cosa hanno fatto le aziende leader da anni e come si muovono i novizi, abbiamo riconosciuto quattro stadi, con sfide organizzative e tecnologiche crescenti, in cui è utile scomporre la transizione alla Soa, vedi figura.

(cliccare sull’immagine per visualizzarla correttamente)

Parametri chiave sono la tecnologia abilitante e lo scopo (dalla singola applicazione all’impresa), che rimanda al committente (da uno a molti).
Primo stadio (Introduction): viene realizzato un progetto sperimentale, tipicamente su applicazione unica, per esempio un portale self service, o un’integrazione multicanale nel call centre; per l’It è un “abbozzo” della Soa e un prototipo per le fasi successive, senza grandi metodologie e governance; indirizza a costo contenuto un’esigenza specifica, per un unico business owner, una linea di business che paga per ritorni tutti suoi.
Secondo stadio (Spreading): si sviluppano altri progetti, magari adiacenti dal punto di vista del business. Prendiamo l’esempio di una banca che, dopo avere sviluppato un portale per clienti retail, decide di estenderlo a servizi corporate; parliamo magari di una cinquantina i servizi condivisi fra quattro o cinque applicazioni, per cui ci vogliono un Esb (Enterprise bus service), un’interfaccia Wsdm (Web Services Distributed Management), e una governance di sviluppo (Soda), perché più team seguano le stesse regole e l’uno possa utilizzare il lavoro dell’altro. Resta ancora unico l’owner beneficiario e finanziatore.
Al 3° stado (Exploitation), lo scopo si estende a più domini e unità di business: l’infrastruttura diventa piattaforma strategica Soa (con Registry e Repository Soa, Bpm e un Policy Management), e produce alto riuso dei servizi. Diventano più di uno gli owner: sorgono problemi organizzativi di governance. L’ultimo stadio (Plateau) eleva a “classe enterprise” la Soa, abilitando una capacità evolutiva e adattativa continua dei processi di business strategici e una miglior agilità del business. Il prezzo sono necessità via via più massicce di disciplina e di governance: occorrerà aver rodato a lungo i meccanismi di governance nello stadio 3. Potrebbero proporsi casi in cui saltare la fase 3, ma è un salto senza rete: su circa 200 aziende, non ho trovato chi eviti il lungo apprendistato della fase 3.

ZeroUno: Allo stato dell’arte, come si posizionano oggi le aziende su questo modello?
Pezzini: Sono in corso inchieste ad hoc, i numeri non sono “scolpiti”, ma diciamo che, fatto 100 il numero di aziende, un terzo (33%) ignora la Soa; un altro terzo è allo stadio 1, un quarto (25%) è in fase 2, un 7% (i leader) è in fase 3, e meno dell’1% è al 4: il che vuol dire che non ho visto ancora un’azienda completare il 4° stadio con successo. Se qualcuno ce l’avesse fatta, non sarebbe una “grande”, con tante divisioni e tante sussidiarie, altrimenti l’avremmo vista.

ZeroUno: Ai vari livelli di maturità, quali benefici si cominciano a cogliere?
Pezzini: Economia di scala e agilità. Economia di scala dal riutilizzo di servizi all’interno di più applicazioni. Con meno costi di sviluppo e contrazione del time to market. Costa e ci metto di meno, quanto più mi inoltro nei livelli di maturità: si raggiunge abbastanza presto uno stadio tra 1° avanzato e 2°, in cui al 30% dei servizi da sviluppare da zero, si contrappone un 30% ricavabile da codice legacy “imballato” e un altro 30% recuperato da progetti Soa precedenti. Tra 2° avanzato e 3° ci si può aspettare già disponibile un 75%-80% di servizi occorrenti. Questo effetto di scala, rapidamente crescente tra stadi 1-2 e 2-3 (e l’associata riduzione dei costi di manutenzione delle applicazioni) è misurabile, mentre l’agilità, o capacità di riconfigurare i processi di business ricombinando servizi, è intuitiva, ma difficile da dimostrare: inforcato l’universo Soa non c’è più l’altro universo per fare il confronto.

ZeroUno: E i problemi?
Pezzini: C’è un rischio sicurezza: con la Soa si aprono in potenza tanti punti d’ingresso a dati e applicazioni quanti i vari servizi, con interfacce ben definite, documentate e pubblicate in azienda. Ci sono clienti che hanno scoperto utenti furbi e “smanettoni” che si scrivevano applicazioni Excel o Access e pescavano dati tramite i servizi esposti sull’Esb. Si controlla il rischio mettendo i servizi Soa “sotto chiave” e disciplinandone rigorosamente i diritti di accesso con una Soa Governance. Ma è la governance organizzativa della fase 3 il grosso scoglio: c’è un’azienda italiana di media dimensione che ha realizzato un’architettura Soa per il digitale terrestre, ma non è riuscita a farla sfruttare da altre unità di business; nell’ambiente Soa fortemente condiviso, non è banale decidere chi paga e chi è responsabile di cosa. L’ostacolo “biecamente contabile” è spia di un ostacolo culturale, che riguarda non l’It, ma l’intera azienda, e rende vulnerabile lo sviluppo della Soa, fortemente dipendente com’è dal riuscire a disciplinare una relazione collaborativa a tutto campo con il business (rispetto allo sviluppo tradizionale, quello Soa è sbilanciato a investire più sulle fasi di requirement e di disegno, e meno su sviluppo e dispiegamento). Un terzo ostacolo è il problema di garantire un’integrità end-to-end con un’infrastruttura così dispersa nel middleware come quella Soa, in cui una transazione logica di business può traversare indefiniti strati di software, per arrivare al servizio. Si garantisce integrità e reversibilità se qualcosa non va, facendosi carico di requirement infrastrutturali sempre più complessi. La raccomandazione ai Cio è dunque quella di un’adozione della Soa per stadi, che dimostri benefici di business a ogni scalino.

ZeroUno: C’è un messaggio per il 33% che non ignora la Soa?
Pezzini: La scelta è assolutamente legittima, se non si trova valore dalla Soa nel proprio contesto. Ma star fuori è “illusorio”, per via della strategia dei fornitori di Erp (Sap e Oracle in testa), tutti convinti dal mercato a “sposare” la Soa. Il rischio, inevitabile, è di utilizzare il pacchetto software scelto senza sfruttarne le potenzialità, un po’ come rimanere sul Web a livello Web 0.5 quando gli altri usano il Web 2.0.

ZeroUno: Giusto… e Web 2.0, nuova capacità di consumo della Soa?
Pezzini: Alla fine Web 2.0 è una piattaforma che consente all’utente di collaborare. Ma anche le applicazioni di collaboration che usano Ajax o Ria dovranno integrarsi con dati da qualche parte, attivando processi che alla fine consumano servizi Soa.


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