Forse mi sbaglio ma sono abbastanza convinto che se riuscissi a sbirciare nell’agenda delle priorità dei top manager più visionari, alla voce ‘organizzazione’ troverei, e nemmeno tanto tra le righe, un appunto sottolineato in rosso e cerchiato più volte: ‘ripensare, rifondare, ripartire’.
Sottoposto alle montagne russe della ‘nuova normalità’, l’interpretazione canonica del modello organizzativo gerarchico sembra segnare il passo come mai prima d’ora. Di fronte ad un contesto sempre più fluido, mutevole con punte al limite del parossismo e non predicibile anche solo nel breve periodo, la gerarchia mostra tutti i suoi limiti: incapacità nell’inseguire in modo efficiente target non stazionari, scarsa attitudine a supportare l’improvvisazione come prassi operativa, cronica incapacità a ridisegnare rapidamente la mappa dei poteri interni in funzione degli obbiettivi di business.
Visto dalla prospettiva delle risorse umane, se possibile lo scenario è ancora più complicato: in una situazione tanto frammentaria ed in continuo movimento come si può prevenire la fuga dei talenti? Come creare un’identità condivisa tra collaboratori che forse nemmeno s’incontreranno mai?
Per quanto possa sembrare paradossale, una possibile via d’uscita c’è e si basa se non proprio sulla dissoluzione certamente sulla riduzione ai minimi termini della gerarchia: in una parola anarchia.
La migliore autorevolezza del momento
Se l’equazione anarchia=caos=disordine pare una di quelle poche certezze universali, nella realtà dei fatti l’anarchia è tutt’altro. Il termine anarkhia nasce ai tempi di Omero ed Erodoto per descrivere la particolare situazione in cui un gruppo armato si ritrova orfano della propria guida: contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare quello che si osserva in quei momenti non è il caos, anzi nella maggioranza dei casi prevale l’arkhein cioè l’iniziativa, l’azione coerente dei singoli. L’anarchia dunque non è sinonimo di assenza di regole ma di assenza di comando. Detto altrimenti, l’anarchia non implica il caos ma un nuovo ordine non basato sul comando.
Come ben descrive Colin Ward nel suo ‘Anarchia come organizzazione’, l’anarchia può essere intesa come un concreto, efficace modello organizzativo particolarmente adatto ad una realtà multiforme, in continuo movimento e soprattutto ricca di tensioni tra loro contrastanti: le regole, i legami e i comportamenti emergono naturalmente dall’interazione e dalla negoziazione tra le esigenze di attori autonomi, distinti, responsabili in cui non prevale a priori un punto di vista privilegiato (quello del capo) ma quello che meglio sintetizza gli obiettivi del gruppo.
Si realizza insomma una sorta di leadership liquida, dinamica, temporanea in cui i rapporti di forza tra le parti si ridisegnano in funzione della situazione contingente: la leadership si coagula spontaneamente intorno a chi, in quel momento, esprime la ‘migliore autorevolezza’ all’interno del gruppo. Una dinamica che privilegia, anzi esalta, l’iniziativa, la varietà dei punti di vista e la ricchezza delle diverse esperienze: l’esatto contrario dell’ingessata organizzazione gerarchica che cristallizzando la mappa dei valori ad un dato momento-contesto non riesce a reagire agli stimoli sincopati del mondo schizofrenico dell’oggi.
Fine della gerarchia dunque? No, ma ridurla drasticamente non può che portare vantaggi, primo fra tutti la capacità, ora pressoché irraggiungibile, di entrare in risonanza con le dinamiche più rapide della ‘nuova normalità. E la governance dove la mettiamo? Come garantire l’allineamento con la strategia dettata dal business? Come garantire il raggiungimento di obbiettivi prefissati e sui quali spesso si gioca l’esistenza stessa dell’azienda? Anche in questo caso il passo è da gigante. Le organizzazioni-tipo si concentrano prevalentemente sul logos, cioè sugli aspetti logici (processi, procedure) sottovalutando o peggio ancora ignorando tanto l’ethos (la cultura aziendale, costruita dal basso come somma delle singole culture ed esperienze individuali) quanto il pathos (il sentire, la passione per il proprio ruolo/lavoro). Tanto più in contesti difficili, l’ethos e il pathos, se trascurati o sotterrati da ulteriori burocrazie figlie dello ‘stato di crisi’ rischiano di fare da freno anziché da volano al cambiamento. Trasferire allora il messaggio strategico significa tradurne il senso al di fuori del logos, mettendo chiunque abbia un ruolo lungo la catena di creazione del valore nelle condizioni di poterne coglier l’essenza e, soprattutto, di potersi mettere in gioco col proprio bagaglio di esperienze e ambizioni. Se si riesce nell’impresa di rendere continuamente intelligibile la strategia aziendale, il contesto dell’organizzazione liquida non può che fare da incubatore, liberando e nel contempo indirizzando spontaneamente le energie svincolate dalle incrostazioni gerarchiche.
Di più, in un contesto del genere la strategia stessa cambia la sua natura: da oggetto definito a priori (statico e troppo lento per cambiare in tempo utile) diventa un soggetto vivo, plastico in grado di modificarsi in continuo assorbendo gli stimoli delle continue e diverse interpretazioni sul campo.
Piattaforme tecnologiche ultraflessibili
In tutto questo l’IT che ruolo può giocare? Semplicemente fondamentale. La diluizione della gerarchia, se da un lato comporta alti livelli di trasparenza e soprattutto mentalità apertissime, dall’altro esige piattaforme di comunicazione ultraflessibili in grado di modellare tanto le geometrie variabili delle relazioni professionali quanto le mille facce delle competenze-conoscenze dei singoli, vero patrimonio e motore operativo delle aziende. La buona notizia per l’IT è che almeno questa volta si tratta di una sfida ampiamente alla sua portata: non c’è nulla da inventare, c’è solo l’imbarazzo della scelta. I social network, le tecnologie mobile di ultima generazione – tablet in primis – gli strumenti di comunicazione audio video basati su Internet l’hanno già ampiamente dimostrato: utilizzati in ottica business possono fungere da veri e propri catalizzatori per modelli organizzativi distribuiti, flessibili, in una certa misura informali.
L’aspetto interessante è che il progressivo spostamento su piattaforme di comunicazione agili renderebbe meglio strutturate (e anche meglio analizzabili) informazioni oggi annegate nel mare magnum delle caselle email e dei file server. Un esempio? Immaginiamo di abbandonare l’uso della email in favore di Twitter; immaginiamo di gettare alle ortiche la vecchia suite di office automation stand alone in favore di piattaforme collaborative tipo GoogleDocs; immaginiamo anche di prendere decisioni contando i ‘like’ raccolti dagli interventi filmati postati, magari da casa, all’interno dei canali delle singole divisioni; immaginiamo anche che processi e procedure siano tutti descritti in una manciata di pagine wiki aperte ai contributi di tutti; da ultimo proviamo ad immaginare di indirizzare le antenne della BI e della sentiment analysis verso la mole di informazioni generata in questo cloud aziendale digitale. Non so voi ma io credo che ne vedremmo davvero delle belle…
Il contributo forse più originale però l’IT lo può dare a livello di modelli operativi-organizzativi: rileggere oggi ‘La cattedrale e il bazar’, il saggio di Eric Raymond datato 1997, non solo nell’ottica della produzione del software ma più genericamente in quella della produzione del valore, rende immediatamente visibile il contrasto tra la cattedrale-gerarchica e il bazar-liquido. Quindici anni di sperimentazioni pratiche sul campo hanno portato a modelli di sviluppo di successo che potrebbero benissimo essere esportati in contesti totalmente diversi: ve lo immaginate ad esempio cosa accadrebbe se applicassimo i concetti e gli strumenti tipici di scrum al marketing strategico?
Troppo visionario? Banalizzante la complessità del reale? Semplicemente irrealizzabile? Può anche darsi, ma come diceva un vecchio pensatore, guarda caso anarchico, “coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che appariva loro come possibile, non sono mai avanzati di un solo passo”. Dunque, rimettiamoci in moto.