ROMA – Nel programma degli “Incontri con gli Utenti” che oramai da tempo la nostra rivista organizza per monitorare, assieme ad analisti di mercato e ad aziende fornitrici di tecnologia, lo sviluppo dell’It applicata alle esigenze di sviluppo e competitività delle imprese, si è tenuto lo scorso maggio a Roma un “Executive Lunch” dedicato a quelle soluzioni di analisi e data management che, nell’ambito più generale della intelligence aziendale, indirizzano specifici obiettivi di business. Come ha infatti osservato il direttore di ZeroUno, Stefano Uberti Foppa, nel presentare il tema dell’incontro, occorre che l’adozione delle tecnologie abilitanti l’analisi delle informazioni aziendali sia preventivamente guidata dalla volontà di disegnare le linee guida di quella che si definisce una ‘information company’. Bisogna insomma evitare il rischio che le tecnologie siano acquistate e implementate in modo estemporaneo, cercando piuttosto di definire un percorso che porti ad identificare prima le reali necessità informative dell’impresa e poi, di conseguenza, quelle soluzioni, tra le tante che offre il mercato, più adatte a soddisfarle.
La parola è passata quindi a Stefano Epifani, docente dell’Università La Sapienza (www.uniroma1.it), che ha esordito parlando di quello che è il primo ostacolo alla definizione di quel percorso di cui si è detto, e cioè l’enorme quantità d’informazione prodotta in azienda e in particolare la crescita dell’informazione non strutturata, che si stima raddoppi ogni tre mesi: “una somma di conoscenza alla quale non riusciamo a dare forma”. E non sono solo i dati di fonte interna a crescere: l’informazione prodotta dagli utenti oggi ha già superato quella prodotta dalle imprese, raggiungendo, in volume, il 60% dei contenuti della Rete. E si tratta, osserva Epifani, d’informazioni che, provenendo da quello che è di fatto il mercato, un’azienda non può pemettersi di ignorare. Ma di tutte queste informazioni solo una piccola parte è rilevante, e più la massa d’informazioni cresce più diventa difficile trovare quelle che contano. Per questo: “fare business intelligence non è una scelta, è un obbligo”. Il secondo elemento in rapida evoluzione è la prospettiva temporale, che si restringe sempre più. “Non si ragiona più in termini di trimestri, né di mesi o settimane. Bisogna sapere ciò che succede adesso”, continua Epifani. Ciò trasforma le finalità stesse della business intelligence. La Bi non è più (o non è solo) uno strumento di pianificazione, ma diventa uno strumento operativo “…capace di darmi ciò che occorre momento per momento, perché anche se è vero, e resta sempre vero, che la conoscenza del passato aiuta a comprendere il futuro, oggi è ancor più vero che la comprensione del futuro viene dalla conoscenza del contesto”. In altre parole, il valore del dato storico decresce a favore di quello del dato in tempo reale.
Dall’analisi di Epifani si è entrati quindi nel vivo del dibattito. Alberto Logeri (nella foto), capo Servizio Acquisti di Aeroporti di Roma (www.adr.it), ha esordito convenendo sulla necessità di definire una strategia di Bi che consideri gli elementi base del lavoro di chi dovrà servirsene e sulla opportunità di supportare la scelta della tecnologia con una esperienza-pilota condotta su piccola scala, ma ha poi posto sul tavolo il serio problema dell’attendibilità del dato e della presenza di basi dati separate: “se da un lato devo sapere su quali serbatoi di dati posso contare, dall’altro devo
decidere se ne ho o se ne avrò davvero bisogno”. Su questo tema è intervenuto Piero De Marinis (nella foto), Cio di Anas (www.stradeanas.it), che ha osservato come spesso nelle aziende un dato di sintesi apparentemente semplice (ha fatto l’esempio del numero dei dipendenti) sia in realtà generato da fonti disparate, tanto da renderne difficile l’estrazione: “non è che non sappiamo cosa ci occorre. Non sappiamo come arrivarci”. E quanto ai dati non strutturati, ne ha convenuto l’importanza ma, ha aggiunto: “il punto sta nell’uomo, che è destrutturato. La strutturazione dell’informazione è un problema che va oltre la tecnologia”.
Concetto che è stato ripreso da Vittorio Gallinella (nella foto), vice direttore generale di Lait (www.laitspa.it): “l’utilizzo delle informazioni va adattato agli scopi del momento, quindi cambia nel tempo. Ma se chi deve usare un certo dato pensa di usarlo in modo diverso da chi a suo tempo lo ha strutturato, quel dato per lui diventa inutile”. Quest’osservazione ha portato Claudio Iacovelli (nella foto), direttore Sistemi Informativi di Datamat (www.datamat.it), ad intervenire sostenendo che occorre
che le soluzioni di Bi permettano di interpretare i dati a prescindere da dove e da chi sono stati prodotti. Ciò presuppone il superamento del concetto di ‘possesso’ dei dati per arrivare a forme di condivisione: “l’organizzazione che non lotta per la condivisione dei dati non lotta per il proprio sviluppo”. Un’informazione che non viene scambiata tra un dipartimento e l’altro (come ad esempio un dato di vendita che non sia analizzato anche dalla produzione), non porta valore all’impresa. In sintesi: “il ritorno in valore di una strategia di Bi sta nella capacità di riutilizzo dei dati”. Un concetto condiviso anche da Alessando Musumeci (nella foto), Direttore centrale S.I. di Ferrovie dello
Stato (www.ferroviedelostato.it), impegnato in un vasto progetto di integrazione dei numerosi e diversi sistemi di Bi sviluppatisi nel tempo a supporto di una realtà dalle attività diversificate. “Il problema non è la tecnologia – sostiene Musumeci – ma piuttosto la necessità di un forte commitment del top management e di un’elevata capacità di demand management”. “Il punto – ha concluso Ferdinando Mulas (nella foto), direttore Sistemi Informativi del Ministero della Giustizia (www.giustizia.it) – è che se non c’è il fondamento di un sistema informativo operazionale omogeneo, che dia basi dati unificate e affidabili, non si può parlare
di Bi”, aggiungendo, per quanto riguarda i discorsi fatti sulla condivisione dei dati, l’esperienza dice che purtroppo a volte esiste una precisa volontà contraria.
Il dibattito è passato quindi agli aspetti tecnologici della questione, con l’intervento di Fabio Todaro (nella foto), country manager di Sybase Italia (www.sybase.it), al quale Uberti Foppa ha chiesto di esporre la sua visione a proposito del disegno generale di una Bi a livello enterprise rispetto all’approccio, più ‘facile’ ma meno organico, di una Bi su base dipartimentale, nonché sul ruolo della tecnologia di intelligence come abilitatore di nuove
capacità e opportunità per l’impresa. “Ovviamente – ha risposto Todaro – non posso non essere d’accordo col fatto che l’adozione di una soluzione di Bi sia una scelta irrinunciabile e che questa soluzione debba orientarsi verso un’analisi dei dati quanto possibile in tempo reale. E se per il mondo del trading finanziario o delle Tlc il real-time è un’esigenza, non c’è quasi attività che, se la tecnologia lo consente, non ne possa trarre vantaggio. E sono anche dell’opinione, e qui passo a rispondere alla prima domanda, che le tematiche di gestione del dato vadano approcciate con progetti che investano tutta l’azienda. Ma è un fatto che i singoli dipartimenti sono in genere più reattivi ai problemi che li riguardano e cercano, se possono, di avviare progetti capaci di dare subito dei risultati. Magari con l’ottica di espandere la soluzione tecnologica adottata per indirizzare altri problemi.”
All’intervento del vendor si è agganciato Giuliano Razzicchia (nella foto), responsabile piattaforma Crm di Enel (www.enel.it), la cui esperienza esemplifica il quadro tracciato, “nel senso che la tecnologia abilitante per fare tutta una serie di analisi di Bi era disponibile, ma non c’era nessuno che avesse avuto l’idea di applicarla ad informazioni che erano ugualmente disponibili per risolvere un qualche problema”. Si tratta certamente di un problema di cultura aziendale, cui talvolta si aggiunge, ha detto Razzicchia, il freno di una tecnologia magari molto performante ma di uso non immediato che ne limita l’impiego ai cosiddetti
‘cruscotti’ destinati al top management. E Giuseppe Clementino (nella foto), It manager di Ancitel (www.ancitel.it), ha fatto notare come vi siano sovente in azienda tecnologie avanzate che vengono sfruttate solo in piccola parte rispetto alle loro potenzialità: “occorre anche fare formazione per insegnare agli utenti come fare ricerche sui dati”.
Sul problema dell’uso delle analisi realizzabili con gli strumenti della Bi è intervenuto anche Bruno Cameli (nella foto), responsabile del Competence Centre Tecnologico Wireline di Telecom Italia (www.telecomitalia.it), che ha osservato come occorrano diversi livelli di aggregazione delle informazioni, in
funzione appunto delle diverse esigenze che può avere un utenza dirigenziale piuttosto che una operativa. Può essere utile anche, secondo Cameli, una ristrutturazione dei processi aziendali che faciliti un approccio di tipo ‘pull’ al recupero delle informazioni, al fine di poter dare risposte immediate, a livello di pochi minuti, a problemi di tipo operativo. “Il motivo – ha spiegato Cameli – per cui tutti chiedono l’estrazione dati su Excel è perché poi se li possono e vogliono elaborare da soli. Non è più l’analista, ma l’utente aziendale che decide quale report occorra e come convenga usare il dato”. Da qui la necessità di avere un sistema di Bi per quanto possibile destrutturato, in modo da potersi adeguare alle variabilità della domanda interna.
La questione ha introdotto, indirettamente ma in modo ineludibile, l’eterno problema dei rapporti tra It e business, che è stato infatti proposto da Franco Ricotti (nella foto), responsabile Business Development del Gruppo Stratos (www.gruppostratos.com): “Nel momento in cui la Bi diventa uno strumento non solo usato ma gestito, magari anche come budget, dalle linee di business, emerge anche un mutamento del ruolo della funzione It nei suoi confronti”. Che viene a cambiare nel senso che l’It non è più direttamente responsabile dell’erogazione di un servizio ma è delegata ad interpretare in una forma accettabile dalle caratteristiche dello strumento istanze ed esigenze che appartengono comunque agli uomini del business. Se quindi, come osservato da Clementino (Ancitel), servono persone It che conoscano bene il business dell’impresa, occorre anche un’evoluzione
culturale e di competenze in senso contrario. “Anni fa nell’amministrazione pubblica – è intervenuto Concezio Berardinelli (nella foto), responsabile del personale del Ministero della Difesa (www.difesa.it) – v’erano tali barriere culturali nei confronti delle tecnologie che di fronte alle informazioni fornite dall’It i dirigenti ministeriali erano come “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Semplicemente, non potevamo capire il potenziale di sviluppo che poteva venire dall’analisi dei dati. La cultura dell’informazione e la pressione di utenti divenuti ‘clienti’ hanno poi cambiato di molto le cose”.
E Berardinelli ha citato la creazione di una mappa delle inefficienze del Ministero e l’istituzione di team che studiano il da farsi per porvi rimedio attraverso, appunto, un miglior uso delle informazioni.
Vogliamo concludere con una interessante, e per certi versi provocatoria, questione sul rapporto tra i dati e le analisi che da questi sono generate sollevata da Domenico Fortunato Cassese (nella foto), project manager della Dfc del Comune di Rionero in Vulture (www.comune.rioneroinvulture.pz.it): “si può avere una strutturazione dei dati che ne conservi la neutralità? Chiedo questo – spiega Cassese – perché ci si trova a volte a leggere qualcosa che assomiglia sempre più a una rassegna stampa. Non si potrebbe avere un accesso più diretto ai dati di partenza?”. “Questo è ‘il’ problema”, ha risposto Epifani, che dopo aver fatto notare come si possa trarre una informazione utile dall’esame dei dati originali solo finché si lavora su pochi dati da poche fonti, ma sia impossibile farlo su migliaia di dati da centinaia di fonti diverse, ha colto l’occasione per una breve digressione sul tema, fondamentale, della neutralità del dato. “Se un singolo dato si può considerare neutro, questa neutralità scompare nel momento stesso in cui lo collego ad un altro dato”. Di conseguenza, per quanto possa sembrare paradossale, l’informazione, che nasce dalla correlazione strutturata di dati, non può essere mai oggettiva ma è, per definizione, soggettiva, determinata in ciò
dalla scelta operata al momento di decidere quali dati correlare. E Maria Rosanna Avena (nella foto), Project Manager di Sogei (www.sogei.it), ha osservato al proposito come, anche semanticamente, si sia passati da quelle che un tempo si chiamavano statistiche alla Bi proprio perché l’analisi del dato diventa orientata ad uno scopo, appunto, di business. “Quella che volevamo fosse una ‘fotografia’ asettica della realtà è diventato un qualcosa d’altro: qualcosa determinato da dove vogliamo arrivare”. “In verità – ha concluso Epifani – anche sull’asetticità delle statistiche ci sarebbe da ridire. Ma questa è un’altra storia”.
Sybase e l’approccio a colonne
Sybase è una società specializzata nella fornitura di soluzioni software infrastrutturali e mobili per le aziende. E’ un’azienda che ha progettato un data warehouse basato su colonne anziché record oltre dieci anni fa e che, oggi, vede il mercato della business intelligence sempre più orientata al real-time. Sybase risulta essere ben posizionata sul mercato sia per quanto riguarda l’offerta legata all’enterprise data warehouse, sia per quanto riguarda il mercato più orientato a soluzioni “all in one” grazie alla nuova appliance Sybase IQ 15. Secondo Idc, la multinazionale americana ha un vantaggio competitivo dato da un approccio “colum-based” già maturo e consolidato nelle proprie soluzioni. (N.B.)