MILANO – Mentre ‘velocità, flessibilità ed efficienza’ sono ormai il mantra di qualsiasi dipartimento It, l’esplosione di dati, alimentata da applicazioni eterogenee (email, Erp, analytics e così via) ed esasperata da fenomeni quali cloud, mobility e social, continua a mettere a dura prova i sistemi di archiviazione delle aziende, spingendoli al limite. Secondo le stime di Gartner, il volume delle informazioni può arrivare a crescere addirittura dell’80% ogni anno, richiedendo alle infrastrutture informative una scalabilità senza precedenti.
Come uscire dall’impasse? Red Hat ha scelto la strada del software-defined storage, che, sfruttando le potenzialità della virtualizzazione, permette di ‘astrarre’ e unificare le risorse di archiviazione, calcolo e networking, all’interno di ambienti It on-premise e cloud, garantendo scalabilità indipendentemente dall’architettura hardware sottostante.
Il problema è che il volume totale del digital universe, formato in larga parte da dati non strutturati, aumenterà di un fattore di 50 nel 2020 (fonte Idc), ma, come spiega Gerald Sternagl, Emea Business Unit Manager Storage di Red Hat, “i budget aziendali dedicati allo storage non avranno crescita analoga”.
Inutile, quindi, sostiene il vendor statunitense, puntare su soluzioni storage hardware proprietarie, diseconomiche e inefficaci sotto il profilo della scalabilità, con il rischio di trovarsi un’infrastruttura costruita a silos indipendenti e non comunicanti. “Non bisogna – sostiene Sternagl – continuare ad aggiungere isole per gestire i dati in aumento, ma ricorrere a una piattaforma software-based convergente, scale-out e basata su standard”. La proposta di Red Hat è una soluzione che, facendo leva su tecnologie aperte quali GlusterFS e Red Hat Enterprise Linux OpenStack Platform, unifica l’accesso ai dati e la gestione dello storage, scongiurando il rischio di lock-in (funziona con qualsiasi server x86 standard del settore e garantisce interoperabilità con l’esistente). Può essere implementata in infrastrutture on-premise, così come all’interno di nuvole private, pubbliche e ibride, permettendo di migrare facilmente i dati dal data center al cloud e viceversa. In sintesi, “lo storage del futuro sarà open e hybrid”, ribadisce il manager Emea.
Red Hat sostiene che le architetture software-defined possano cambiare il settore dello storage e il modo di operare delle aziende, così come Linux è stato in grado, una decina di anni fa, di rivoluzionare il mondo dei server. Idc, secondo le dichiarazioni di Sternagl, definisce il nuovo modello “disruptive e inarrestabile”.
Nel nostro Paese, secondo quanto descritto da Gianni Anguilletti, Country Manager italiano della multinazionale, la proposta del nuovo modello di storage che è arrivata solo di recente, “sta già raccogliendo interesse soprattutto in settori come le Telecomunicazioni e il Finance [soluzioni di questo tipo si prestano, in ambienti complessi, per workload ad alta intensità, archiviazione nearline (una tecnologia intermedia, che rappresenta un compromesso, in termini di spazio di archiviazione e facilità di accesso ai dati, tra lo storage online e offline), distribuzione di contenuti rich media eccetera, ndr]”. Anguilletti ritiene che lo storage software-defined troverà maggiore applicazione per la gestione di dati non-mission critical, come modo per fronteggiare dinamicamente l’esplosione dei big data in un’ottica di contenimento dei costi, andando così a integrare, nelle infrastrutture aziendali di storage, i ben più costosi sistemi hardware tradizionali, da dedicare, invece, alle informazioni più strategiche.