Entro il 2020, l’universo digitale raggiungerà il 35 zettabyte (un milione di petabyte) mentre nel 2011 si era già arrivati a 1,8 zettabyte. Lo sostiene un’analisi dell’Unione Europea nel lanciare il progetto di server EuroCloud finanziato con 3,3 milioni di euro in tre anni. L’obiettivo è la realizzazione di un microchip destinato a ridurre drasticamente l’uso di energia elettrica (le rilevazioni preliminari parlano di risparmi del 90%) e i costi di installazione dei server nei data center dedicati al cloud computing. “La ‘fame’ di cloud data center non è sostenibile nel lungo periodo”, ha dichiarato la vicepresidente della commissione europea Neelie Kroes, presentando il progetto EuroCloud anche come un modo per migliorare la posizione delle imprese europee nel settore.
A far aumentare la fame contribuiscono significativamente i grandi gestori di social network e i service provider, che continuano a costruire data center per rispondere al bisogno degli utenti privati e professionali (ma la distinzione è sempre più labile) di accedere in modo ubiquo alle informazioni da una molteplicità di dispositivi, sempre più in mobilità. Secondo il Visual Networking Index di Cisco, il numero di dispositivi connessi alle reti Ip sarà, nel 2016, circa tre volte la popolazione. Di conseguenza il traffico globale Ip, che già si è moltiplicato per 8 negli ultimi 5 anni, supererà la soglia del zettabyte l’anno per la fine del 2016, con una crescita anno su anno del 29% nei prossimi 5 anni, anche grazie a un contributo significativo del mobile data, che crescerà del 78% nel periodo 2011 e 2016. Il traffico Ip dell’Europa Occidentale raggiungerà 24.4 exabytes (mille petabyte) al mese entro il 2016 con un incremento anno su anno del 27%.
L’aumento delle fonti dei contenuti e il crescente numero di dispositivi, spinto dall’effetto Byod – Bring you own Device, avranno effetti rilevanti anche per le imprese. “Fornire nuova capacità per soddisfare la domanda aggiuntiva è solo la prima di molte attività per i Cio di oggi – dice David Molony, principal analyst di Ovum -. La crescita del fenomeno Byod (i dipendenti che utilizzano i propri dispositivi per connettersi a risorse aziendali) sta portando una nuova ondata di nuove minacce alla sicurezza e ulteriore pressione sui costi”.
Ma con l’arrivo del mondo connesso e la presenza di una molteplicità di oggetti fisici abilitati in modo digitale come nodi di comunicazione, la rete aziendale è sottoposta ad un faticoso lavoro aggiuntivo. Il ruolo della rete è però stato finora trascurato.
Ce lo ha ricordato Andre Kindness, Senior Analyst serving Infrastructure & Operations Professionales di Forrester, in occasione dell’acquisizione, avvenuta la scorsa estate, di Nicira, pioniere nel Sdn (software defined networking) da parte di VMware.
No network no cloud
“Nel nostro viaggio verso il cloud ci siamo dimenticati delle reti. Ma questa acquisizione ci ricorda che il cloud non esiste senza la rete. VMware non è stata la sola a convertirsi alla regione della rete”, ha detto l’analista di Forrester , facendo l’elenco delle acquisizioni degli ultimi due anni come quella di 3Com da parte di Hp, di Force10 Networks da parte di Dell, di Blade Networks da parte di Ibm, mentre Google ha creato i suoi propri switch. Per non parlare di Cisco per la quale la rete tocca tutto e deve diventare parte integrante di qualunque trasformazione dell’infrastruttura aziendale.
La consapevolezza che per affrontare le sfide e dare risposte alle esigenze degli utenti finali e dei clienti la rete dovrà essere intelligente si sta diffondendo almeno sul versante dei vendor più impegnati sul cloud.
Una rete intelligente differisce da una rete statica: diventa il sistema nervoso per la gestione delle applicazioni e pone la configurazione, il monitoraggio e la riconfigurazione sotto il controllo dell’utente. Con l’importanza crescente della rete all’interno delle comunicazioni, dell’It e dei servizi cloud, è diventato fondamentale per il Cio prendere in considerazione tutti i fornitori, tra cui gli operatori Telco, quando si prendono decisioni sui servizi. Se le applicazioni e i servizi si spostano sulla rete, dove sono sempre più ospitati, memorizzati e dispersi, il primo compito del Cio è dunque trovare un partner di rete, un service provider in grado di distribuire e ridistribuire in modo ottimale le risorse esattamente dove sono necessarie, proprio al momento giusto. La maggior parte delle imprese multi-regionali, impiegano Wan multiple, alcune gestite da un fornitore di servizi, altre in-house. Queste spesso si basano su una rete complessa mista, non ottimizzata o razionalizzata per le esigenze dell’accesso user-centrico alle risorse aziendali.
Per accelerare la transizione può essere utile la consapevolezza che il cloud non si applica solo a It e software, ma anche alle reti e alla loro gestione, ai sistemi e agli strumenti che consentono all’utente di scegliere tra servizi di rete e l’accesso alle applicazioni. Per alcuni tipi di utenti questo è l’impatto più importante del cloud, come evidenzia la ricerca sui business (Multinational Corporate Survey 2011: Cloud Services) di Ovum, secondo la cui analisi l’evoluzione della rete intelligente permetterà alle organizzazioni un provisioning o self-provisioning dinamico, minuto per minuto, in accordo con le esigenze del business.
L’Ict contribuisce all’effetto serra, ma le reti intelligenti possono essere la soluzione
Lo spostamento di intelligenza verso le reti può contribuire anche a ridurre l’impatto ambientale e i costi connessi al proliferare di dati e device per accedervi, di cui abbiamo detto all’inizio. L’uso della videoconferenza o di altri sistemi evoluti di comunicazione digitale fanno ad esempio risparmiare costi e inquinamento legati ai trasporti. Secondo Cleanweb (movimento di sviluppatori e imprenditori, nato negli Usa e recentemente lanciato anche in Italia, che cerca di affrontare i problemi dell’energia e dell’ambiente attraverso l’impiego di tecnologia mobile, web e open data) l’uso della teleconferenza ha consentito, nella sola Gran Bretagna, la riduzione del 30% dei viaggi per un corrispondente risparmio di 3,3 milioni di barili di petrolio. Ma se non c’è sufficiente attenzione ai consumi e alla tipologia di alimentazione dei data center si rischia di annullare i vantaggi ottenuti con la digitalizzazione. Le stime più accreditate attribuiscono al settore It il 2% dell’effetto serra globale (Ghg), gran parte del quale deriva dai mega data center alcuni dei quali arrivano a produrre tanta Co2 quanta ne produrrebbero 180mila abitazioni. Una bella responsabilità, che ha indotto un’organizzazione attenta alla salvaguardia del pianeta come GreenPeace a stilare una classifica sui comportamenti dei Big dell’informatica.
Dal report emerge, ad esempio, che tre delle maggiori aziende It, come Amazon, Apple e Microsoft, che proprio attorno al cloud stanno costruendo il proprio business, non fanno abbastanza attenzione alla scelta delle sorgenti di elettricità che alimentano i loro cloud, mentre Yahoo e Google sono estremamente attive nel supportare investimenti nelle rinnovabili. Facebook, responsabile del suo miliardo di utenti, ha avviato una strategia di attenzione all’uso di energie rinnovabili che ha concretizzato nella costruzione del suo data center in Svezia. Akamai, uno dei maggiori fornitori di servizi cloud e di connettività, viene segnalata come la prima azienda It che comunica il suo consumo di combustibili fossili usando lo standard Carbon Utilization Effectiveness (CUE).
L’attenzione alle fonti di energia affiancata dalla digitalizzazione delle reti elettriche può renderle smart e ridurre ulteriormente l’impatto ambientale e i costi. Può infatti modificare il modello di distribuzione dell’energia dall’attuale flusso unidirezionale verso un nuovo modello dove i punti di consumo possono diventare contemporaneamente sia ricevitori che generatori di energia, con benefici effetti anche sui budget It. Aziende e service provider non solo potranno controllare meglio i costi di raffreddamento del data center, ma potranno trasformarlo da centro di costo a centro di profitto rivendendo l’energia creata nel data center direttamente all’azienda elettrica o a un aggregatore di energia. Negli Stati Uniti, ad esempio, sono già entrate in vigore normative per incentivare gli aggregatori (è il caso di Enernoc) che si accordano con i propri clienti per ridurre la domanda richiesta alla rete o per rendere disponibili capacità di generazione sulla base degli input del controllore della rete. È addirittura nata un’unità di misura della riduzione della domanda (il negawatt) che ha un costo equivalente a quello della capacità produttiva. L’azienda può così guadagnare riducendo in modo programmato i suoi consumi per un certo periodo di tempo in modo da poter utilizzare l’energia altrove. In alternativa, l’azienda può essere pagata per l’energia risparmiata, rendendola disponibile alla rete o all’aggregatore.