Metodologie

Il diritto all’oblio: cosa prevede il GDPR e quali gli avanzamenti della giurisprudenza

Sulla complessa, e quanto mai di attualità, materia del diritto all’oblio il GDPR si limita a prevedere che l’interessato ha il diritto di ottenere la cancellazione dei dati che lo riguardano in casi specificamente individuati, senza però recepire gli avanzamenti della giurisprudenza e della dottrina su questa tematica

Pubblicato il 14 Ott 2021

Cosa fare in merito al diritto all'oblio

Il GDPR prevede espressamente, per la prima volta, nell’ordinamento europeo, il cosiddetto “diritto all’oblio”. Ma, nonostante la rubrica della norma, “Diritto alla cancellazione («diritto all’oblio»), l’art. 17 si limita in realtà a riprodurre, con qualche precisazione e puntualizzazione, i contorni del diritto alla cancellazione disciplinato dalla direttiva 95/46.

Cos’è il diritto all’oblio?

Con lo sviluppo di Internet ci si è domandati il significato del diritto all’oblio. Ci si è posto il problema di come tutelare l’interesse dell’individuo che non desideri vengano riproposte vicende superate da tempo.

Il significato concreto del diritto all’oblio si sancisce il diritto di essere dimenticati. O meglio, non ricordati per fatti che in passato sono stati oggetti di cronaca.

E proprio il diritto all’oblio su internet è uno dei molteplici aspetti in cui si esprime il diritto alla riservatezza e alla privacy dei dati personali.

Diritto all’oblio e diritto alla memoria

Diritto di cronaca e diritto alla memoria. Tutelando il diritto all’oblio si rischia di scontrarsi con la possibilità di eliminare tracce di reati e, addirittura, si può arrivare a mettere in pericolo la democrazia stessa.

La memoria ha, infatti, un forte valore sociale e rappresenta un potenziale in questo senso che non può essere annullato per tutelare il singolo che vuole cancellare il suo passato.

La dicotomia “memoria/oblio deve essere quindi valutata in base a dei distinguo netti, regole certe… Da alcune sentenze si evince che il diritto all’oblio può essere “compresso” a favore del diritto di cronaca se vi sono certi presupposti. Tra questi: l’importanza della notizia per un dibattito di pubblico interesse; l’interesse attuale ed effettivo alla diffusione della notizia; un elevato grado di notorietà del soggetto.

Diritto all’oblio e privacy vs libertà di manifestazione del pensiero

L’articolo 15 della Costituzione italiana tutela il diritto di comunicare con un destinatario specifico liberamente, il 21 protegge quello di comunicare con una generalità indeterminata di soggetti.

In generale, la libertà di pensiero è alla base di una concezione liberale della società. Anche in questo caso è la giurisprudenza a valutare l’interesse concreto, pubblico e attuale di diffondere determinati elementi che riguardano alcune persone. I fattori da considerare sono l’interesse per la collettività, per esempio dal punto di vista della notorietà o del ruolo pubblico rivestito dal personaggio in questione.

Il ruolo delle corti

Sono molteplici le decisioni prese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dalla Corte di giustizia dell’Unione europea e dalla nostra Corte di cassazione che hanno aiutato a delineare le forme di tutela e le caratteristiche del diritto all’oblio rispetto ai diritti sopra citati.

Per esempio, una sentenza del 26 giugno 2018 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha confermato che il diritto all’oblio rientra nell’ambito del diritto alla tutela della vita privata. Diritto previsto dall’art. 8 del CEDU – Convenzione europea dei diritti dell’uomo, mentre la libertà di espressione è garantita dall’art. 10 CEDU.

Oppure nella sentenza del 24 settembre 2019 (caso C-507/17), la Corte UE ha detto, tra le altre cose, che spetta alle autorità nazionali degli Stati membri (nelle figure di giudici e garanti privacy): operare il bilanciamento tra protezione della vita private e diritto alla libertà di informazione.

In una sentenza della Corte di cassazione del 2019 si è detto che nel contrasto tra i diritti all’oblio e all’informazione è il giudice a valutare l’interesse pubblico, concreto e attuale.

Cosa significa diritto all’oblio oggi

Con la diffusione del digitale, pensare oggi che i propri dati personali possano essere sottratti alla pubblica circolazione non è semplice. Negli elementi di valutazione vi deve essere anche la riflessione relativa alla deindicizzazione, ossia l’operazione che non elimina il contenuto ma lo rende non accessibile direttamente da motori di ricerca. Tale concetto potrebbe rappresentare un compromesso interessante.

Detto tutto questo oggi il diritto all’oblio va a inserirsi in un framework normativo relativo alla data protection molto ampio, in cui anche il GDPR svolge un ruolo di primo piano.

Quando si può esercitare il diritto all’oblio? GDPR Art 17

Il GDPR si limita a prevedere che l’interessato ha il diritto di ottenere, senza ingiustificato ritardo, la cancellazione dei dati che lo riguardano in casi specificamente individuati.

  1. Qualora i dati personali non siano più necessari in relazione alle finalità per le quali erano stati originariamente forniti, raccolti, trattati.
  2. Quando l’interessato revoca il consenso e non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento.
  3. Quando l’interessato si oppone al trattamento.
  4. Qualora i dati personali sono stati trattati illecitamente.
  5. Quando i dati personali devono essere cancellati per adempiere ad un obbligo legale.
  6. Quando i dati personali sono trattati in relazione all’offerta di servizi della società dell’informazione a minori inferiori a 16 o età inferiore (non inferiore a 13) prevista dagli Stati membri.

Nel GDPR nell’art. 17, co. 3 si prevede che la cancellazione non si applica nella misura in cui, il trattamento sia necessario, fra l’altro, per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione. Ma non sono forniti criteri per il bilanciamento fra il diritto all’oblio e il diritto di cronaca (che si pone in posizione antagonista con il primo).

I legislatori nazionali

L’intero meccanismo è lasciato alla determinazione dei singoli legislatori nazionali, che possono prevedere esenzioni o deroghe ai diritti dell’interessato nel caso in cui il trattamento sia effettuato per scopi giornalistici, qualora necessari per conciliare il diritto alla protezione dei dati e la libertà di espressione e di informazione (così l’art. 85.2, in combinato disposto con l’art. 17.3).

In merito all’informativa privacy, il GDPR stabilisce la nuova informativa privacy informi in modo corretto e comprensibile gli interessati della base giuridica del trattamento dei dati e dei loro diritti sul fronte di rettifica, cancellazione e oblio.

Cosa dice la giurisprudenza

Prima del GDPR non vi era alcuna norma giuridica che contemplasse espressamente il diritto all’oblio, né nell’ordinamento europeo, né in quello dei singoli Stati membri. La giurisprudenza e la prassi applicativa delle Autorità Nazionali per la Protezione dei dati ne hanno però riconosciuto progressivamente l’esigibilità, a seguito delle sempre più frequenti richieste di coloro che lamentavano il pregiudizio alla propria reputazione derivante dalle perdurante presenza in rete di articoli di cronaca giudiziaria afferenti ad una notizia sì lecitamente pubblicate (in quanto priva di carattere diffamatorio), ma risalente nel tempo e non più aggiornata.

Tali notizie spostate negli archivi storici dei quotidiani online e reperite dai motori di ricerca determinavano quindi la conoscenza da parte degli utenti del web di aspetti, dati e di profili delle persone interessate nel frattempo totalmente diversi, a causa di eventi e sviluppi successivi (come l’archiviazione di un procedimento o l’assoluzione di un imputato). Significa, altrimenti, perpetrare una sorta di “gogna” elettronica.

La corte di Cassazione, 2012

Nei casi in cui una vicenda giudiziaria ha registrato una successiva evoluzione, la Corte di Cassazione (sentenza n. 5525/2012) ha riconosciuto all’interessato il diritto di ottenere, dall’editore, la contestualizzazione e l’aggiornamento della notizia di cronaca che lo riguarda presente nell’archivio storico on line della testata e resa disponibile tramite i motori di ricerca, pubblicando un link ad altre informazioni successivamente pubblicateche possano completare o financo radicalmente mutare il quadro evincentesi dalla notizia originaria“. Diversamente, la notizia, sia pure “originariamente completa e vera, diviene non aggiornata, risultando quindi parziale e non esatta, e pertanto sostanzialmente non vera”.

Il diritto all’oblio di creazione giurisprudenziale NON è quindi la possibilità di ottenere la rimozione di notizie «scomode» o «sgradite» dalla pubblica circolazione, di «ripulire» la reputazione macchiata da arresti, condanne o anche solo critiche. È il diritto a salvaguardare la propria identità personale in rete. La pretesa di ottenere l’aggiornamento di notizie che, sia pure ab origine corrette, sono potenzialmente lesive in quanto prive di attualità. Questo perché si è ridotto il loro rilievo in termini di pubblico interesse, in relazione al trascorrere del tempo o al ruolo ricoperto nella vita pubblica dell’interessato, in misura tale da risultare soccombente nel bilanciamento rispetto al diritto alla protezione dei dati personali e/o al diritto alla reputazione dell’interessato.

Secondo la Suprema Corte il soggetto tenuto ad intervenire è l’editore (titolare del sito) e non il motore di ricerca che, in qualità di intermediario telematico (con responsabilità limitata ai sensi del decreto legislativo 70 del 2003), si limita a rendere accessibili agli utenti contenuti pubblicati in autonomia dai «siti sorgente», mettendo a disposizione link (generati automaticamente dagli “spider”) alle pagine web che per contenuti corrispondano alle richieste effettuate.

Il diritto all’oblio secondo il Garante Privacy

In ottica analoga si era mossa l’Autorità fin dalle prime pronunce in tema (a partire dal provvedimento del 10 novembre 2004), imponendo un obbligo di intervento esclusivamente ai titolari dei siti sorgente, stabilendo, in particolare, che le notizie risalenti nel tempo (lecitamente pubblicate) dovessero essere collocate, a cura dell’editore, in sezioni non indicizzabili dai comuni motori di ricerca esterni al sito, in modo tale che il loro reperimento fosse di fatto possibile solo attraverso una ricerca mirata e non attraverso una normale ricerca nominativa tramite motori di ricerca.

Dopo la sentenza della Suprema Corte, il Garante Privacy è tornato sulla questione. Lo ha fatto in occasione di successivi ricorsi concernenti la reperibilità di dati personali negli archivi storici on line dei quotidiani. Ha disposto che le pagine o gli articoli lesivi dovessero essere messi in aree non indicizzabili. E che dovessero anche essere provvisti di annotazioni che rettificassero la notizia, secondo quanto disposto dalla Cassazione.

Da notare che la posizione della giurisprudenza e dell’Autorità garante italiano NON si è mai spinta sino a chiamare in causa la responsabilità diretta dei motori di ricerca.

Comunicazioni recenti

Una comunicazione recente da parte del Garante della privacy (2019) è quella che riguarda il fatto che il diritto all’oblio può essere invocato anche partendo da dati presenti sul web che non siano il nome e il cognome dell’interessato se lo rendono identificabile, anche in via indiretta.

È quanto stabilito in seguito al reclamo di un professionista che aveva chiesto a Google di cancellare una Url reperibile online digitando non il proprio nome, ma la sua qualifica di presidente di una determinata cooperativa. Si trattava di un indirizzo Web che faceva riferimento a una notizia non aggiornata e lesiva per la reputazione.

L’Autorità ha ritenuto fondata la richiesta del professionista sulla base del Regolamento europeo che definisce dato personale “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile”.

Diritto all’oblio secondo la CJEU

Tutto ciò cambia completamente nel 2014 con la sentenza della Corte di Giustizia UE nel c.d. caso Google Spain. La Corte ha infatti autorizzato l’interessato a chiedere direttamente al motore di ricerca la rimozione, dall’indice di Google, dei link alle pagine web pubblicate da terzi e contenenti proprie informazioni (cd. «deindicizzazione»). Questo se la loro permanenza in rete non è più giustificata in relazione al tempo trascorso. E ciò anche se si tratta di dati personali la cui pubblicazione è del tutto lecita e anche se i siti sorgente NON li hanno rimossi.

Il motore di ricerca, ricevuta la richiesta, è tenuto ad effettuare un bilanciamento tra interesse pubblico e diritto del singolo ad essere dimenticato. I criteri su cui si basa sono: tempo trascorso, ruolo pubblico del soggetto; inadeguatezza o non attuale pertinenza, rilevanza o eccessività delle notizie.

Le perplessità

La sentenza è criticabile (ed è stata aspramente criticata) per la parte in cui attribuisce un potere decisionale sulle libertà fondamentali degli individui ad un soggetto imprenditoriale che manca, per propria natura, delle necessarie garanzie di indipendenza e imparzialità. Inoltre, non stabilisce un parametro oggettivo di riferimento in base al quale il motore di ricerca debba stabilire la rilevanza delle informazioni. Per esempio dopo quanto tempo il politico, per il quale la protezione dei dati è ovviamente ridotta, torna ad essere un privato cittadino?

Il parere dell’Agenzia Europea

In realtà, quella della Corte è una soluzione parziale ed estremamente pratica, basata sulla premessa (suggerita da ENISA in un rapporto del 2012) che i motori di ricerca contano più dei siti sorgente. L’Agenzia europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione ha evidenziato che, in un sistema aperto e globale come Internet, il diritto all’oblio assicurato è impossibile.

Chiunque, infatti, può avere accesso a dati personali altrui, generalmente tramite motori di ricerca o social network. E farne delle copie per poi reimmetterli in un secondo momento e diffonderli.

I dati non linkati da un motore di ricerca e non presenti nei social network (quindi i dati non strutturati né organizzati), però, sono difficili da recuperare. Si può, quindi, solo tentare di rendere più difficile il loro recupero, chiedendo ai motori di ricerca di filtrare i riferimenti ai dati da dimenticare.

Il caso Costeja

In ogni caso, a seguito della sentenza Costeja, il nostro Garante ha valutato numerosi ricorsi nei confronti dei motori di ricerca che avevano rigettato le richieste di deindicizzazione di articoli contenenti dati personali dell’interessato riferiti a vicende giudiziarie nelle quali era stato coinvolto.

L’Autorità solitamente respinge i ricorsi laddove, nel bilanciamento fra diritto all’oblio e il diritto di cronaca, ritiene quest’ultimo prevalente. Lo fa quando si tratta di un fatto recente e di rilevante interesse pubblico (ad esempio in ragione del ruolo rivestito nella vita pubblica dall’interessato). Li accoglie invece laddove le informazioni sono eccedenti o atte a danneggiare la reputazione e la vita privata del ricorrente.

Quando si ha un ruolo pubblico

D’altronde, il Gruppo di lavoro articolo 29 (WP29), nelle Linee Guida sull’implementazione della sentenza della Corte di Giustizia del 26 novembre 2014, precisa che il diritto all’oblio non dovrebbe essere concesso quando gli interessati rivestono un ruolo pubblico. E quindi sussiste un maggiore interesse del pubblico ad avere accesso all’informazione, come nel caso di politici, alti funzionari, imprenditori e liberi professionisti.

E il Tribunale di Roma, in una sentenza del 3 dicembre del 2015, ha rigettato una richiesta sulla base del ruolo pubblico del ricorrente, un avvocato.

Dei suddetti avanzamenti giurisprudenziali non c’è purtroppo alcuna traccia nel GDPR. Si consideri, in ogni caso, che ai sensi del secondo comma dell’art. 17 GDPR, i titolari che hanno «reso pubblici» i dati personali dell’interessato (ad esempio, pubblicandoli su un sito web).

E sono obbligati a cancellarli. Tenendo conto della «tecnologia disponibile e dei costi di attuazione», devono informare gli altri titolari che trattano tali dati della richiesta dell’interessato di cancellare «qualsiasi link, copia o riproduzione» ai dati personali cancellati. E questo adottando «misure ragionevoli, anche tecniche».

La Corte di giustizia ha qualificato i motori di ricerca come titolari. Questo potrebbe interpretarsi nel senso che i titolari dei siti sorgente debbano comunicare la richiesta di cancellazione ai motori di ricerca.

La soluzione appare in certo qual modo simile a quella ipotizzata originariamente dal Garante. Quando aveva imposto i titolari dei siti sorgente di collocare le notizie risalenti nel tempo in sezioni non indicizzabili dai comuni motori di ricerca esterni al sito.

Come esercitare il diritto all’oblio su Google?

Per esercitare il proprio diritto all’oblio su Google è necessario compilare un modulo online. È reperibile a partire dal sito di Google stesso. Cliccando su “Invio di una richiesta di rimozione per motivi legali”. E poi su “Strumento” per avere accesso alla pagina di segnalazione.

Nella segnalazione devono essere riportati i dati personali, la dichiarazione del fatto che la richiesta sia effettuata per sé, per un’azienda o terzi. Caricando in ogni caso un documento che attesti l’identità.

A questo punto vanno elencati ogni URL che si desidera far de indicizzare con esplicita motivazione.

Esistono poi direttive specifiche per altre soluzioni Google quali YouTube oltre a Immagini, Drive, Maps, Play.

Casi famosi di diritto all’oblio

Tra le sentenze famose relative a Google vi è quella riferita a Google Spain. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea sancisce che chi gestire un motore di ricerca è responsabile del trattamento dei dati personali. Essi si visualizzano tra i risultati di una ricerca e mediante un link rimandano a pagine Web pubblicate da terzi (sentenza del 13 maggio 2014).

In Italia..

Più nello specifico, vi sono vari casi quali la legislazione è intervenuta. Per esempio, nel nostro Paese, vi è la sentenza n. 19681/2019 delle Sezioni Unite. Concerne la rievocazione di un omicidio avvenuto quasi 30 anni prima da una persona che nel frattempo aveva scontato la pena. E si era reinserito nella società. Egli aveva il diritto alla “riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva”.

Più recentemente, invece, (ordinanza n. 7559/2020 della Corte di Cassazione) è stata respinta la richiesta degli eredi di un imprenditore defunto. Essi chiedevano di cancellare dal web informazioni relative a inchieste penalmente rilevanti del deceduto.

Volendo poi citare un personaggio famoso, vi è il caso di Antonello Venditti. La Corte di Cassazione gli ha dato ragione in merito alla violazione del suo “diritto all’oblio conseguente alla messa in onda di immagini registrate cinque anni prima”.

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