Privacy e tutela dei dati

Più paradossi che consapevolezza nella privacy

Sulla gestione dei dati personali, gli italiani non si discostano più di tanto dalla media globale quanto a una percezione imprecisa e un buon livello di confusione nel conciliare riservatezza e utilizzo sella Rete. Tutto questo emerge da una ricerca EMC insieme a una serie di atteggiamenti spesso in contrasto con le proprie intenzioni

Pubblicato il 23 Giu 2014

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Marco Fanizzi, AD di EMC Italia

Spesso assimilata alla sicurezza e di conseguenza valutata e trattata secondo le relative regole, in realtà la privacy in Rete presenta caratteristiche del tutto particolari e implicazioni tali per cui è necessario affrontare la situazione con un’attenzione dedicata. Un dispositivo o un’applicazione considerati sicuri infatti non implicano necessariamente la tutela delle informazioni personali, dettaglio tutt’altro che insignificante per chi desidera mantenere il controllo sul profilo personale e soprattutto per le aziende chiamate, in Italia più che altrove, a rispettare normative particolarmente rigide. La delicatezza della questione ha indotto EMC a impegnare risorse nella realizzazione del Privacy Index, uno studio su scala globale per analizzare il comportamento degli utenti nei confronti della privacy online.

«Anche in Italia, la spinta verso l’innovazione è molto forte – afferma Marco Fanizzi, CEO di EMC -. Il mondo cambia velocemente, basta guardare il modo del tutto diverso con cui i giovani utilizzano lo smartphone, solo in minima parte per telefonare. Tutti però utilizziamo una serie di app che cambiano il nostro modo di vivere e, di conseguenza, il modo di fare business delle aziende. Che ci piaccia o no, anche le aziende devono farci i conti».

In un contesto dove condivisione e personalizzazione occupano un ruolo predominante, le ripercussioni sulla privacy assumono un contorno delicato. «Abbiamo voluto cercare di capire dal punto di vista dell’utente come venga vista tale esplosione di applicazioni – sottolinea Fanizzi -, e quanto si abbia la percezione sulla reale tutela delle informazioni personali».

A livello globale è emerso come il 91% apprezzi la Rete per i vantaggi in termini di accesso alle informazioni, anche se solo il 27% si dice pronto a sacrificare la propria privacy, intesa come capacità di mantenere il controllo sui dati personali. Solo il 41% si dice fiducioso nei confronti dell’impegno da parte del rispettivo Governo, mentre per il futuro lo scenario appare destinato ad aggravarsi, con l’81% convinto di una diminuzione del livello di privacy nei prossimi cinque anni e il 59% che non ha difficoltà ad ammettere come questo sia già successo nel corso dell’ultimo anno.

Per effetto anche di una legislazione tra le più rigorose in assoluto, in Italia la questione appare particolarmente sentita, anche se al momento di passare alla pratica in genere gli atteggiamenti mutano drasticamente. Nonostante solo il 29% dei connazionali (poco più del 27% globale) dichiari di essere disposto a barattare la riservatezza con la possibilità di sfruttare applicazioni e servizi, l’atteggiamento pratico va in un’altra direzione. Cambiare password regolarmente è una pratica limitata al 41% degli intervistati, con un terzo degli utenti di dispositivi mobili incuranti di usare anche gli strumenti di base per proteggerne l’accesso.

Inoltre, anche se la prospettiva di vedere diffusi i profili personali è poco gradita (89% non apprezza), il 64% non si fa particolari remore in ambito di social networking e l’86% effettua acquisti in Rete senza particolari accorgimenti. «Nell’e-commerce è praticamente obbligatorio dare il consenso – sottolinea l’avvocato Dante De Benedetti, socio fondatore dello studio MDBA -. Tuttavia, appena ricevuta la merce posso sempre chiederne la rimozione. Per quanto possibile, consiglio di mantenere i rapporti in Rete all’interno della giurisdizione italiana, tra le più attente in materia».

Sul lato utente, lo scenario appare quindi ancora molto confuso, come conferma anche una serie di atteggiamenti che la ricerca inquadra come paradossi. «Il più evidente è quello di voler tutto senza rinunciare a niente – riprende Fanizzi -. Il 91% chiede un accesso più facile alle applicazioni, ma solo il 27% è disposto effettuare concessioni sulla propria privacy. Un divario che si restringe con il diminuire dell’età».

Un altro aspetto chiama invece in causa la sicurezza, con riflessi per certi versi preoccupanti. Oltre la metà afferma infatti di aver subito violazioni dei propri dati, sia online sia sul proprio dispositivo. Nonostante questo, il 62% mantiene le password invariate e il 40% accetta le impostazioni di base per la tutela dei dati nell’utilizzo dei social network. «Il loro uso tuttavia aumenta, così come la consapevolezza che in futuro la situazione peggiorerà – rilancia Fanizzi -. Questo, nonostante l’84% non apprezzi il fatto che qualcuno conservi e utilizzi informazioni personali e solo il 51% mostri fiducia nelle competenze del provider. Addirittura, se si parla di sensazione sul senso etico, si scende al 39%».

Dal punto di vista delle aziende, si tratta di una serie di spunti utili a impostare strategie future in materia di relazioni con gli utenti, dove la possibilità di garantire una maggiore attenzione non va ricercata lontano. «Anche a costo di spendere qualcosa di più, un cloud dovrebbe appoggiarsi a un data center italiano – conclude De Benedetti -. Sotto il profilo della privacy il servizio è di livello superiore e i data center sono all’altezza della situazione. La maggior parte degli utenti cloud è infatti convinta che i dati siano al sicuro, ma il problema è che vale la legge del Paese di residenza dei server e gli stessi USA sono molto più permissivi rispetto a noi».

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