Anche i satelliti hanno una loro aspettativa di vita. Lo sappiamo bene per il tanto parlare che si fa dell’inquinamento spaziale legato ai loro resti, mai rimossi e ora accumulati nello spazio, disturbando i nuovi lanci e le altre attività “in zona”. Ma da cosa dipende la loro durata, come apparecchi attivi e utili?
Per il solo fatto che si tratta di oggetti spaziali non si deve pensare a dinamiche complesse. È piuttosto intuibile ciò che accade di norma: quando la quantità di carburante che trasportano termina, i satelliti cadono nell’atmosfera e si bruciano. O, mal che vada, arrivano sulla Terra, fortunatamente non spesso. Se si vuol regalare “lunga vita ai satelliti”, è quindi necessario minimizzare i loro consumi, considerando anche quelli per azionare i propulsori e rimanere in orbita.
La propulsione ad aria arriva in laboratorio
Sembra non esista molto spazio di manovra in questa dinamica tecnologica e invece esiste. È limitato all’orbita terrestre molto bassa (VLEO), dove c’è disponibilità di aria, ma esiste e permette di risparmiare considerevoli quantità di propellenti come lo xeno, il kripton o l’argon.
La tecnica che sfrutta l’aria al loro posto è la propulsione elettrica. Si possono infatti realizzare dei sistemi che da essa sono in grado di generare energia sufficiente per guidare i satelliti senza propellenti convenzionali.
Finora questa soluzione era rimasta scritta e dimostrata sui libri, solamente. Adesso è arrivata nelle mani e nelle menti dei tecnici del Princeton Plasma Physics Laboratory (PPPL) del Dipartimento dell’Energia statunitense e degli accademici della George Washington University (GWU). In squadra, questi esperti stanno costruendo dei prototipi, grazie a un finanziamento di 400.000 dollari da parte del DARPA, lasciandoci sperare in una svolta.
Dal punto di vista fisico, i conti dovrebbero tornare e il meccanismo funzionare. Con la “propulsione elettrica a respirazione d’aria” (ABEP – Air-Breathing Electric Propulsion) un satellite in movimento può utilizzare l’aria attraversata come carburante. Il segreto è avere a bordo un dispositivo che aspira aria dall’alta atmosfera e spinge le particelle in una camera di ionizzazione dove viene creato il plasma. Accelerando le particelle cariche ottenute verso l’esterno, non si fa che spingere il satellite in avanti, proprio come se avesse il motore acceso. Tutto questo, dalle prime prove in laboratorio, sembra essere davvero possibile. A patto di volare basso, molto basso, ad altitudini di 100 chilometri, dove l’atmosfera è ancora abbastanza debole.
Pericolo cariche elettriche: una sfida aperta
Per quanto è facile descrivere come funzionano i motori APEB, può sembrare banale costruirli, ma non è affatto così. L’aspetto più critico è l’esplosione degli ioni espulsi dal satellite: c’è il rischio che si carichino elettricamente. Se ciò accadesse, potrebbe potenzialmente attrarre gli ioni in uscita verso il motore, cosa che farebbe fare al satellite un balzo all’indietro invece che in avanti.
Il team di lavoro sta ragionando su tale aspetto per minimizzare l’effetto noto e temuto. L’idea è quella di neutralizzare efficacemente gli ioni in uscita, senza però annullare o troppo indebolire la spinta che il satellite si aspetta di ricevere per volare.
Lavori in corso, ma nel frattempo il settore sta già pensando ai vantaggi legati all’introduzione di tale tecnica. L’utilizzo dell’aria al posto del propellente permetterebbe di ridurre la massa dei satelliti oppure di investire la differenza di massa per altri aspetti, a partire dall’estenderne la durata di vita.
Prospettive decisamente allettanti che già aveva esplorato l’Agenzia Spaziale Europea nel 2018. I suoi ingegneri avevamo costruito un prototipo funzionante, annunciando di poter progettare un sistema in grado di volare a 200 km di altitudine a una velocità di circa 7,8 chilometri al secondo. Non sono seguiti i fatti e la propulsione elettrica a respirazione aerea era rimasta una teoria da sognatori. Ora sembra essere vicino al diventare realtà.