Mercati

Export e network innovation spingono il pharma italiano in Europa

Attrarre investimenti globali e mantenere la leadership europea cavalcando l’onda della digitalizzazione del settore sono le due sfide che il pharma italiano si trova ad affrontare in un anno in cui la pandemia l’ha visto reagire prontamente ma anche riflettere sulle proprie fragilità stilando poi, a livello europeo, una strategia con le nuove tecnologie al centro.

Pubblicato il 22 Gen 2021

pharma

Abbandonare vecchi paradigmi di governance adottandone di nuovi che rendano la farmaceutica italiana attrattiva e competitiva a livello globale, perché questo settore rappresenta il più grande investimento in R&S al mondo: le imprese nei prossimi 5 anni investiranno 1.000 miliardi di dollari e l’Italia deve poterne attrarne una buona percentuale per consolidare il recente trend di recupero rispetto a quei Paesi europei in cui gli investimenti sono ancora più elevati. È questa la sfida del 2021 per il mondo pharma italiano: “le nostre imprese nel loro complesso possono essere una delle carte vincenti del Sistema Italia e vogliono continuare a investire” spiega il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi, ricordando che l’industria del farmaco rappresenta un asset strategico per l’Italia e vanta un tasso di imprese innovative tra i più alti (oltre il 90%). Molte di queste realtà hanno già abbracciato le tecnologie digitali in un’ottica di network innovation che supera quella di open innovation e accelera la trasformazione seguendo un piano di innovazione digitale strutturato e potenzialmente favorito dalla flessibilità normativa sperimentata durante la pandemia.

Export traina la crescita del pharma italiano

Con un valore della produzione di 34 miliardi di euro il settore farmaceutico italiano è cresciuto del 5,6% nel 2019 rispetto al 2018 ed è quello che ha registrato la più alta crescita nel decennio 2009-2019 con un +22% a fronte del -14% della media manifatturiera. Secondo l’analisi di Farmindustria, molto si deve all‘export che da solo vale 32,6 miliardi di euro e che se nel decennio è aumentato del 168% (contro il +86% della media manifatturiera) solo nell’ultimo anno ha segnato un + 25,6%. La propensione alle esportazioni non è mai stata così accentuata: oggi è il 96% della produzione totale farmaceutica ad essere esportato, lo era il 39% nel 1999 e il 52% nel 2009. A prevalere sono i medicinali (67%) seguiti dalle sostanze di base (30%) e dai vaccini (3%), tutto è destinato in gran parte a Paesi Europei (68%) se non agli USA (18%).

Con un + 3,7% nel 2019 crescono anche gli investimenti in produzione, ad alto tasso di innovazione, che ammontano a 1,4 miliardi di euro, da sommare a quelli in ricerca e sviluppo pari a 1,6 miliardi di euro, il 7% del totale degli investimenti in Italia. Questa iniezione di risorse ha portato ad importanti risultati in alcune aree di specializzazione come ad esempio quella dei farmaci biotech e dei vaccini, aree strategiche per la vivacità dell’intero settore e che ne stanno trainando la crescita. Sono oltre 300 i farmaci biotech in via di sviluppo, quanto ai vaccini l’Italia è considerata un hub internazionale di ricerca e produzione con un saldo estero pari a 3 miliardi in 10 anni. Un comparto fondamentale è anche quello del Contract Development and Manufacturing Organization (CDMO), noto anche come produzione conto terzi, in cui l’Italia è prima in Europa e che, soprattutto grazie anche ai suoi investimenti 4.0, rappresenta un valore di produzione di 2,1 miliardi, il 23% del totale europeo.

Leadership e unicità dell’Italia in Europa

Numeri alla mano, è fuori discussione che il pharma italiano stia giocando un ruolo da protagonista nell’Unione Europea: l’Italia è prima per presenza di PMI farmaceutiche oltre a registrare un incremento dell’export doppio rispetto alla media e un valore nell’indotto superiore sia alla media europea, sia a quello della Germania, l’altro paese leader per la produzione. Una così elevata competitività nasce da una composizione di imprese unica in Europa che mostra un perfetto bilanciamento tra aziende a capitale italiano (42%) e a capitale internazionale (58%). Queste ultime svolgono un ruolo di primo piano per occupazione e valore aggiunto e sono soprattutto a capitale statunitense e tedesco, ma anche francese, svizzero e giapponese. Le prime registrano un fatturato realizzato all’estero superiore al 70% del totale (rispetto ad una media manifatturiera del 40%) e hanno segnato un raddoppio delle vendite estere negli ultimi 10 anni, raddoppio da interpretare, secondo Farmindustria, come volontà non di delocalizzazione ma di presidiare nuovi mercati.

La digitalizzazione come risposta alla pandemia

Pienamente coinvolto nell’emergenza sanitaria, il settore del farmaco italiano si è dimostrato non solo resiliente ma anche attento al territorio. “Fin dalle difficili fasi iniziali, le imprese hanno subito offerto, con senso di responsabilità, risposte concrete a pazienti e lavoratori collaborando con le Istituzioni e gli altri attori del Sistema Salute. Hanno assicurato la continuità operativa garantendo l’accesso alle cure a tutti i malati. Hanno mantenuto stabili i livelli di occupazione ricorrendo, ove possibile, allo smart working e introducendo misure di sicurezza ancora più stringenti per coloro che andavano negli stabilimenti – racconta Scaccabarozzi – Hanno donato 42 milioni in farmaci e beni e servizi. Addirittura 6 aziende hanno modificato le linee produttive per rispondere alla crescente domanda di prodotti disinfettanti, ceduti gratuitamente. E oltre il 70% delle imprese ha adottato azioni di responsabilità Sociale a favore dei malati e dei dipendenti”.

L’impatto della pandemia, però, per il farmaceutico non è stato solo un reagire prontamente e pragmaticamente alle emergenze ma anche un fermarsi a riflettere, a livello europeo, su una strategia per modernizzare il modo in cui l’Unione fornisce i medicinali alla sua popolazione. Il Covid-19 ha messo infatti in luce la forte dipendenza dall’importazione da Paesi terzi: secondo quanto riportato dall’I-Com (Istituto per la Competitività) dal 60 all’80% dei principi attivi viene prodotto al di fuori dell’Europa, principalmente in Cina e in India. Dalle “macerie” lasciate dalla pandemia emerge la volontà dei Paesi membri di creare una infrastruttura “autonoma” di ricerca e produzione che riduca le vulnerabilità nella catena del valore. In tal senso un ruolo cruciale lo possono giocare le nuove tecnologie come sottolineato nella roadmap pubblicata a giugno 2020 dalla Commissione Europea per una “Strategia farmaceutica per l’Europa” che definisce la digitalizzazione una importante necessità per l’intero settore sia per soddisfare le esigenze terapeutiche dei pazienti che per diminuire l’impatto ambientale. Tra le prime azioni possibili per un sistema europeo più resiliente, molte riguardano l’utilizzo e la condivisione di informazioni – con il sogno di uno spazio europeo dei dati sanitari – ma ci sono da ripensare anche le modalità per favorire collaborazioni tra pubblico e privato che inneschino processi di innovazione nella produzione.

Dall’open innovation alla network innovation

La “flessibilità” normativa introdotta durante la crisi sanitaria rispetto alle procedure di autorizzazione all’immissione in commercio dei farmaci può diventare anche l’occasione creare nuove regole e procedure che incoraggino maggiormente l’innovazione. Questo vale per l’Europa e per l’Italia stessa visto che Farmindustria non nasconde come una regolamentazione focalizzata più sulla sicurezza dei pazienti che sul favorire cambiamenti a livello industriale e un processo di innovazione / sviluppo molto lungo, regolamentato e sotto il controllo di enti autorizzativi stiano condizionando l’adozione di quelle tecnologie digitali che dovrebbero invece rappresentare una leva di sviluppo strategico, in grado di portare un aumento della produttività, un allargamento del portafoglio prodotti e anche un miglioramento della customer experience.

Aumentare il contenuto tecnologico delle attività è una sfida costante per l’industria farmaceutica che, prima per presenza di imprese con accordi di cooperazione per l’innovazione con Università e Istituti di Ricerca pubblici ( +95% per la R&S in partnership negli ultimi 5 anni), ha ormai superato l’ottica dell’open innovation puntando sulla network innovation. Ciò significa acquisire da altre imprese o istituzioni servizi di ricerca e sviluppo e software o macchinari innovativi ma anche investire in start-up e creare partnership con aziende native digitali.

Le sinergie con imprese in grado, grazie alle nuove tecnologie, di tracciare ed elaborare un’enorme massa di dati con strumenti di Big Data Analytics, stanno innescando un’accelerazione esponenziale della digitalizzazione del settore conducendolo ad un radicale cambio di paradigma. Dalle terapie basate sulla logica one-fits-all si passa per la già attuale medicina di precisione andando verso le “next generation biotherapeutics” con un approccio sempre più olistico e circolare al processo di cura che si traduce in maggiore prevenzione delle malattie, migliori diagnosi, terapie più mirate ed efficaci, meno effetti collaterali. Per valorizzare questo processo di digitalizzazione e innovazione basato sull’utilizzo dei dati, diventano necessari investimenti sulla sicurezza informatica e anche nuovi modelli regolatori che tengano conto dei rischi legati alla privacy e agli effetti sulla proprietà intellettuale.

Accelera lo sviluppo delle competenze

L’introduzione delle tecnologie digitali aumenta il bisogno di nuove competenze con cui deve fare i conti anche un settore come quello del farmaceutico in cui oltre il 90% dei 66.500 addetti è laureato o diplomato. Secondo Farmindustria le imprese sono consapevoli e ricettive da questo punto di vista e non vedono la digitalizzazione come una minaccia: quelle che ritengono che l’adozione delle nuove tecnologie le porterà ad aumentare l’occupazione (49%) sono di gran lunga più numerose rispetto a quelle che pensano di ridurla (14%). Tra le priorità organizzative da affrontare da questo punto di vista ci sono l’introduzione di figure cruciali come il Chief Digital Officer, per coordinare le attività digitali in azienda, e la creazione di unità di Advanced Analytics, per sviluppare una maggior consapevolezza delle potenzialità dei big data in diversi ambiti. Si tratta nella maggior parte dei casi di risorse in arrivo dall’esterno ma che non assolvono le imprese dalla necessità di un’importante opera di aggiornamento delle figure già presenti nei loro team e che si trovano a dover saper gestire non solo nuovi strumenti ma anche nuove modalità di lavoro in tutte le fasi, data la pervasività della digitalizzazione nel mondo pharma. E’ quindi il momento di sviluppare veri e propri percorsi accelerati di sviluppo delle competenze e di compiere in modo deciso un cambiamento di cultura aziendale per attrarre, oltre agli investimenti su scala globale, anche le nuove generazioni di talenti.

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