La lotta agli sprechi comincia già nel piatto in cui si mangia. Ma spesso non basta.
In un sistema articolato e di forti tradizioni come quello agroalimentare, l’innesto di modelli sostenibili, circolari e inclusivi e di strumenti e soluzioni IT in grado di aggiungere valore in tempi rapidi è tutt’altro che semplice. Né è facile trovare risposte univoche e concrete ai tanti interrogativi che il percorso di sviluppo di un sustainable food system pone a chi abbia deciso d’imboccarlo: dagli agricoltori e allevatori all’industria di trasformazione, dagli operatori logistici fino alla GDO e ai consumatori finali.
Per attivare un monitoraggio costante della situazione e dei progetti in campo, la School of Management del Politecnico di Milano ha creato l’Osservatorio Food Sustainability, che lo scorso giugno ha presentato la sua prima indagine, dedicata in particolare al tema delle pratiche in atto contro gli sprechi lungo tutta la filiera agroalimentare.
“Quest’Osservatorio – come ha spiegato Alessandro Perego, Direttore del Dipartimento di Ingegneria Gestionale e Responsabile scientifico dell’Osservatorio – vuole andare al di là della digital innovation. In tal senso è un po’ a sé stante nel contesto degli Osservatori finora attivati dal Politecnico. I colleghi unitisi per questo progetto sono partiti mossi per lo più da una spinta ideale. Lavoriamo da anni su questi temi, ma più che altro singolarmente e abbiamo deciso di portare unitarietà e continuità a queste nostre attività. La sostenibilità è, nel contempo, un imperativo morale e un tema sempre più rilevante nell’agenda strategica degli attori economici”.
Who's Who
Alessandro Perego
E l’agroalimentare è un settore decisivo in tal senso: non solo per i numeri che muove e l’impatto reale che esercita sulla vita di tutti, ma anche sotto l’aspetto simbolico.
“Il food rappresenta un buon esempio – ha sottolineato Perego – di quanto sia rilevante una strategia di sostenibilità in una supply chain. E mostra anche che non basta più dichiararsene tutti consapevoli senza passare a interventi organici e sistemici. Servono modelli applicativi, analisi, strumenti concreti, nonché l’impegno delle comunità e delle aziende. Reti di soggetti, insomma, disposti a dedicare tempo ed energie per costruire qualcosa insieme, affrontando i temi con un approccio multidisciplinare. Per questo Osservatorio, nel Politecnico si sono via via aggregati colleghi di vari dipartimenti: gestionale, chimica, energia, design, elettronica, bioingegneria, civile, ambientale. E abbiamo messo intorno a un tavolo anche quegli attori della filiera che più portano innovazione nei suoi diversi anelli: startup, associazioni, policy maker, non profit. Anche perché si tratta di una partita più ampia, che coinvolge tutto il Politecnico, in vista di nuove opportunità di didattica. Stiamo lavorando, infatti, a un nuovo corso di laurea magistrale di Food engineering, che dovrebbe partire con l’anno accademico 2019-20”.
L’Italia terza nel mondo per food sustainable startup
La prima ricerca dell’Osservatorio Food Sustainability è partita dal censimento delle startup, italiane e non, create tra il 2012 e il 2017 con obiettivi dichiarati di sostenibilità sociale, ambientale ed economica nell’agroalimentare. Ne sono state rilevate 399, pari al 20% circa delle 2.026 startup mondiali censite come attive nell’agrifood.
I modelli di business prevalenti si concentrano sulla proposta di soluzioni innovative per un uso più efficiente delle risorse, sull’introduzione di filiere corte o sull’utilizzo di materiali naturali nella produzione.
Con il 37%, su un totale di 38 newco agroalimentari, l’Italia figura tra i Paesi con la maggior incidenza di startup agrifood sostenibili, alle spalle di Israele (28 startup agrifood, di cui il 64% sostenibili) e Spagna (29 startup, di cui il 38% sostenibili). Lo sviluppo delle newco italiane, però, è rallentato dalle limitate risorse finanziarie a disposizione: circa 300mila dollari in media (contro i 2,4 milioni di dollari per startup a livello globale e i 3,4 milioni ottenuti negli Stati Uniti), insufficienti per raggiungere stabilità economica e scalabilità del business. Tra i casi di maggior successo spiccano le aziende che hanno messo a punto soluzioni circolari per ridurre lo spreco di cibo, ottimizzando i processi e rafforzando la responsabilità sociale d’impresa.
Tra le startup, in pole position i Service provider e Technology Supplier
Nel percorso dal campo al piatto, peraltro, delle 399 startup agrifood sostenibili una buona parte è costituita perlopiù da fornitori di servizi e di tecnologia. Nella maggioranza dei casi (47%), infatti, si configurano come Service Provider: per esempio come fornitori di software e app per il retail o di servizi di consulenza su tematiche di sostenibilità. Oppure sono Technology Supplier (16%), come produttori di tecnologie per l’agricoltura di precisione, o si occupano di Food Processing (13%) per cibo locale, healthy o a minor impatto ambientale.
E se in Israele prevalgono le newco che fanno leva su innovazioni tecnologico-ambientali, in Spagna e Italia si punta più a coniugare la dimensione ecologica con quella sociale, come appunto la gestione delle eccedenze alimentari o la valorizzazione delle produzioni locali. Tra le startup italiane, si possono citare, per esempio, Elaisian.com, che ha sviluppato un sistema di coltivazione di precisione degli olivi, aumentandone la produttività e la qualità dei raccolti; MyFoody.it, portale online che segnala nei supermercati le occasioni di vendita a prezzi scontati di prodotti vicini alla scadenza o con difetti estetici (e che nel 2016 vinse il Premio Speciale Impatto Sociale dei Digital360 Awards); Foodscovery.it, piattaforma digitale che permette di ordinare specialità tipiche di gastronomia regionale direttamente dai piccoli produttori locali.
Who's Who
Paola Garrone
“Le startup ricoprono un ruolo sempre più determinante nel promuovere soluzioni originali e modelli di business innovativi per lo sviluppo sostenibile nell’agroalimentare – ha rimarcato Paola Garrone, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Food Sustainability –: e la conferma arriva dalla crescente importanza della tecnologia come fattore abilitante. Le imprese giovani vanno considerate come luoghi di sperimentazione in grado di apportare nuove conoscenze e competenze anche a contesti già strutturati. Certo, vanno prima comprovate la solidità economica e la scalabilità di queste nuove soluzioni, che devono essere messe a sistema per generare un impatto significativo nel lungo periodo”.
Tra i modelli di business, il più diffuso a livello globale è lo sviluppo di soluzioni innovative per massimizzare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse (il 38% del campione), seguito dai cambiamenti strutturali della supply chain per modelli di filiera corta (al secondo posto con il 27,5% delle startup, ma al quinto posto per finanziamenti ricevuti) e dall’utilizzo di processi e materiali naturali e/o rinnovabili per la produzione. Un’altra soluzione sostenibile apprezzata dai fondi d’investimento è quella della tutela a monte della filiera (finanziamento medio di circa 2,7 milioni di dollari), mentre la riduzione dello spreco alimentare interessa più gli imprenditori che non le società di venture capital o i business angels (finanziamento medio di circa 660mila dollari).
Le forme di collaborazione tra startup, grandi imprese e realtà non profit
“Un aspetto di particolare interesse è quello delle forme di collaborazione che si stabiliscono tra gli stakeholder – ha evidenziato inoltre Raffaella Cagliano, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Food Sustainability –. Per esempio, nella creazione di valore dallo spreco, alcune startup hanno sviluppato tecnologie e know-how per prevenire e gestire le eccedenze riuscendo ad attrarre l’interesse da parte di alcune grandi aziende della filiera. Il beneficio è reciproco: le startup hanno ottenuto risorse e aumentato il loro impatto, mentre le grandi imprese hanno ricevuto sostegno per risolvere un problema magari specifico ma comunque rilevante e, nel contempo, hanno guadagnato una maggior ‘legittimazione’ per la loro strategia di sostenibilità”.
Who's Who
Raffaella Cagliano
La collaborazione può nascere da accordi con i partner più diretti della supply chain, ma anche con imprese della filiera “estesa” (come appunto i fornitori di tecnologia e servizi), nonché con soggetti non tradizionali: enti non profit, imprese sociali, settore pubblico (collaborazioni cross-settoriali).
La partnership tra startup e grande azienda può portare a una forma di collaborazione “simbiotica” (quando permette al big player di implementare un modello di business per la creazione di valore sostenibile), oppure “aumentata”, allorché rende possibile alle startup di avere accesso a un più ampio mercato e di generare volumi più sostanziosi.
Le collaborazioni cross-settoriali, invece, portano le aziende orientate al profitto a perseguire una mission sociale che in genere non è il cuore della loro strategia e a entrare in contatto con soggetti svantaggiati con i quali le aziende del Terzo Settore normalmente operano.
“Le collaborazioni verticali di filiera, sebbene più ‘fisiologiche’ – ha evidenziato infine Cagliano – presentano maggiori vincoli di attuazione, mentre quelle tra startup e grande azienda o quelle cross-settoriali hanno un grande potenziale, ma ancora inespresso: soprattutto per la limitata conoscenza da parte delle imprese di queste opportunità di partnership”.