Mercati

Mediamorfosi, i nuovi modelli di business nel mercato dei media

A fronte di un calo generalizzato dei ricavi provenienti dalla pubblicità e di un deprezzamento degli spazi destinati agli inserzionisti nei quali la quota maggiore viene trattenuta da Over-The-Top quali Google e Facebook, le strategie messe in campo dagli editori più lungimiranti puntano a politiche basate soprattutto su abbonamento e subscription. Come dimostra il caso del New York Times e come spiega Luca Barbarito, professore di Economia politica e dei Media presso l’Università IULM

Pubblicato il 18 Gen 2021

Settore Media

Quando negli anni Novanta Roger Fidler, pioniere del giornalismo digitale, coniò il termine mediamorfosi, probabilmente non immaginava quanto profonda sarebbe stata la trasformazione nel settore dei media. Una trasformazione che oggi sta investendo tutta la filiera nonché gli stessi modelli di business rimasti invariati fino a qualche tempo fa.

Per comprendere la radicalità di questa mediamorfosi si può portare l’esempio del New York Times e dei risultati relativi al terzo trimestre del 2020. La testata ha annunciato il superamento dei sette milioni di abbonamenti, insieme al sorpasso dei ricavi provenienti dagli abbonati alla versione digitale rispetto a quelli generati dal formato cartaceo. Meredith Kopit Levien, CEO del gruppo, ha rivendicato la validità di una strategia volta a “rendere il giornalismo degno di essere pagato” nella quale gli abbonamenti digitali non solo sarebbero il motore centrale della crescita dell’editore, ma ne diventerebbero il suo più grande business. Tanto che l’obiettivo di raggiungere la cifra di 10 milioni di abbonati entro il 2025 non appare irrealizzabile. A determinare l’aumento dei ricavi diffusionali, a detta dello stesso giornale, ha contribuito la presidenza di Donald Trump, mentre nulla ha potuto come baluardo contro la perdita degli introiti pubblicitari che è stata pari a -30% e non ha risparmiato neppure il digital advertising, che è calato del 12,6%. “Nel complesso – commenta il NYT – è probabile che la pubblicità diventi un business più ristretto per il Times, anche se Facebook e Google continuano a prosperare in quell’area”.

Perché l’advertising digitale rende meno di quello tradizionale

Basta questa considerazione a lasciar intendere il cambio epocale che, all’interno dei media, sta affrontando il mondo dell’informazione. Lo spiega bene Luca Barbarito, professore ordinario di Economia politica e dei Media all’Università IULM di Milano: “Si tratta di un trend generale che si vede dappertutto. Nei giornali in precedenza il 50% dei ricavi arrivava dall’advertising e il 50% dal pagamento degli utenti. Ma è un trend in atto anche in un mercato come quello televisivo, se si pensa a Netflix, AppleTv+, Amazon Prime, Chili o YouTube. Il tema è come mai l’advertising nel digital renda di meno, nonostante i due grandi player principali, Facebook e Google, guadagnino sempre di più. Ed è un tema trasversale a tutti i mercati dei media”.

foto Luca Barbarito
Luca Barbarito, professore ordinario di Economia politica e dei Media all’Università IULM di Milano

Nel libro I mercati dei media 2019, FrancoAngeli, scritto da Luca Barbarito insieme ad Antonella Ardizzone e Anna Maria Bagnasco, vengono date le ragioni del perché l’incremento degli utenti online non coincida con un pari incremento delle entrate pubblicitarie. “Le motivazioni sono due – sintetizza il professor Barbarito -: una è la dipendenza tecnologica da pochi grandi player che hanno un vantaggio competitivo enorme dovuto alla raccolta di informazioni sugli utenti. Nessuna agenzia o concessionaria ha la possibilità di targettizzare la pubblicità come fanno questi big e quindi deve appoggiarsi a Facebook e Google per offrire ai clienti una strategia digitale efficace. La seconda ragione, che può sembrare banale, è che mentre nelle copie cartacee c’erano spazi limitati, con il digitale gli spazi pubblicitari sono illimitati. Questo inevitabilmente fa abbassare i prezzi”. Un problema che attualmente stanno affrontando mercati come quello statunitense ed europeo, al contrario di quanto sta avvenendo in Cina e India, dove “le copie cartacee volano e i giornali sono in un momento felice”.

Verso un modello di business basato sugli abbonamenti

Nei mercati occidentali, oltre al deprezzamento del valore degli spazi a disposizione degli inserzionisti, è subentrato anche un modello di ripartizione delle quote per singolo spazio diverso che in passato. “Restando all’esempio dei giornali – chiarisce Barbarito -, nella versione cartacea, fatto un euro di investimento pubblicitario, l’agenzia tratteneva il 15% e all’editore andava l’85% di quell’euro. Adesso su un euro l’agenzia riesce a ottenere il 10%, mentre gli intermediari tecnologici, sostanzialmente Google e Facebook, prendono il 61%. L’editore, per un euro di investimento, oggi incassa 29 centesimi invece degli 85 di una volta”.

È chiaro che sono innegabili le competenze degli “intermediari tecnologici”, ma è anche evidente che la sostenibilità economica dell’editoria non può più fondarsi solo sulla raccolta pubblicitaria, compresa la nuova versione del cosiddetto programmatic advertising. Anche la lieve crescita registrata nel comparto media italiano dall’Osservatorio sulle Comunicazioni di Agcom, da cui emerge un +1,9% della pubblicità online, grazie principalmente ai risultati delle piattaforme (+6,7%), non può supplire alla flessione generalizzata degli introiti nell’editoria quotidiana e periodica.

Nel primo semestre 2020, complice anche la pandemia, tali introiti hanno subito una flessione del 19%, mentre nel settore radiotelevisivo sono scesi del 10,7%. Un dato che sarebbe stato considerevolmente peggiore senza la sostanziale tenuta della raccolta per i contenuti in streaming. Ciò che manca probabilmente in un mercato come quello italiano è una visione chiara, sottolinea Barbarito: “Gli editori stanno cercando di tenere il piede in due scarpe e quindi il prodotto web ancora cannibalizza fortemente quello offerto tramite subscription o fruibile in modalità paywall”. Uno dei sintomi di questa carenza di strategia è l’eccessivo rilievo assegnato spesso al numero di visitatori nella versione online free piuttosto che all’aumento degli abbonamenti. Solo per fare un esempio, a fine 2020 da via Solferino è trapelata grande soddisfazione per i contatti unici di corriere.it che, dopo il picco di 7 milioni e mezzo registrato a marzo, si sarebbero consolidati attorno ai 5 milioni al mese. Ma non è ancora chiaro quanto RCS abbia guadagnato da questi volumi di traffico, cioè quale sia stato il reale conversion rate.

La guerra tra editori e OTT su contenuti e distribuzione

Proprio perché nel mondo dei media stanno emergendo modelli di business in cui l’advertising ha una funzione e un peso diversi rispetto al passato, nella contrapposizione tra OTT (Over-The-Top) come Google, Amazon e Facebook ed editori tradizionali la battaglia oggi si combatte su due fronti: la titolarità dei contenuti e la loro distribuzione. In questa competizione, gli editori hanno imparato a non cedere facilmente i propri “gioielli”, cioè i contenuti di valore.

Alla fine del 2019 Facebook aveva stipulato un accordo con News Corp, editore del Wall Street Journal e del New York Post, per un progetto che avrebbe dovuto prevedere una sezione di notizie presenti sul social network che andassero oltre i semplici link a cura dagli utenti. Il colosso di Mountain View, per parte sua, con Google News Initiative ha dato vita a un fondo che dovrebbe promuovere l’innovazione nel mondo dell’editoria. Apple News, invece, aveva lanciato già nel 2015 negli Usa la sua app per aggregare notizie, ma senza trovare un’ampia platea di editori disposti a cederle. “Gli editori che aderiscono a queste iniziative – continua Barbarito – oggi lo fanno in modo cauto. Magari offrono una sezione o una parte delle notizie, ma non tutti i loro contenuti. Un po’ come avviene nella distribuzione dei libri su Amazon quando le case editrici cercano di sfruttare la coda lunga, provando a tenere per sé i best seller. Per poi scoprire che su Amazon anche i best seller si vendono meglio che sul loro sito”.

Se in futuro Amazon comprasse le edicole di Milano…

La distribuzione è la componente della filiera su cui si stanno sperimentando soluzioni che facciano tesoro degli errori commessi, ad esempio, nell’ambito della musica, dove servizi in streaming come iTunes, Spotify e Pandora hanno messo in crisi il ruolo di intermediazione delle etichette discografiche. Una erosione che, invece, ha visto il mercato librario resistere, giungendo a un equilibrio tra la fruizione dei libri digitali e quella classica in modalità cartacea. Con potenzialità ancora da esplorare nell’editoria scolastica e universitaria che può trarre vantaggio dall’integrazione tra libro di carta e contenuti attingibili sui device elettronici.

Se su questo versante si sta assistendo a una sorta di stabilizzazione, nel comparto dei media “il tentativo – dice ancora il professor Barbarito – è quello di utilizzare ciascuno il proprio canale, seguendo l’esempio della Disney o di Netflix”. In alternativa, ci si muove verso una dimensione basata su alleanze come quella che, sempre per citare il caso del New York Times, vede il più importante giornale del mondo distribuire documentari autoprodotti sulla piattaforma di Netflix.

In questa catena distributiva alcuni anelli sembrerebbero destinati a scomparire, a cominciare dalle edicole. “In realtà – conclude Luca Barbarito – le edicole si stanno già convertendo in punti di distribuzione locale di diversi prodotti, e non solo di quotidiani e riviste, e possono avere mille vite. Naturalmente stanno soffrendo il calo delle vendite dei giornali, però, come per l’ufficio postale, intravedo diverse ragioni di una loro lunga vita futura. In uno scenario fanta economico, se Amazon comprasse tutte le edicole di Milano, non sarebbe un acquisto tanto sbagliato. Servirebbe a far arrivare la distribuzione dei pacchi a costi ancora più bassi per l’acquirente o in tempi ancora più veloci”.

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